Piero Boitani, Il Sole 24 Ore
E così, Giulio Guidorizzi ha completato il suo trittico epico: prima Agamennone, poi Ulisse, ora Enea. Sin dall’antichità, le tre vicende erano legate l’una all’altra. Centro: Troia. Contro la quale Agamennone conduce una spedizione di tutti i Greci perché il fratello Menelao possa riprendersi la moglie Elena, rapita dal troiano Paride. Troia: che Ulisse contribuisce in maniera decisiva a prendere e distruggere, dopo dieci anni di assedio e di guerra, con lo stratagemma del Cavallo di legno; e dalla quale parte per tornare a casa, impiegando altri dieci anni. Troia: dalla quale, proprio durante l’incendio che la devasta una volta per tutte, Enea fugge, portando il padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Ascanio per mano.
Quasi mille anni separano il poema della guerra, l’Iliade di Omero, dal poema di Enea, l’Eneide di Virgilio: una in greco, l’altra in latino, l’una arcaica, l’altra figlia di una civiltà evoluta, nella quale Roma – erede di Troia proprio per via di Enea – domina ormai, nella persona di Augusto, il mondo. Perché questa è l’invenzione geniale di Virgilio, stimolato dal padrone dell’Urbe e dell’Orbe: far sì che uno dei vinti, un profugo, un migrante, dia origine alla sola superpotenza di duemila anni fa. Combinando, per di più, il modello dell’Odissea, nella prima parte, con quello dell’Iliade, nella seconda: le peregrinazioni e la guerra.
Strano eroe, dice Guidorizzi, Enea figlio di Anchise e di Venere. Uno dei guerrieri troiani più eminenti, secondo soltanto a Ettore: condivideva l’ethos aristocratico, quello di combattere non solo per la patria, ma anche per la gloria individuale. Nell’Iliade, però, si scontra con Diomede, e la madre Afrodite (Venere) lo porta via avvolgendolo nel suo peplo; affronta Achille, ma Poseidone annebbia gli occhi del Pelide, solleva il troiano e gli fa compiere un gran balzo all’indietro. Se due divinità intervengono direttamente per evitargli la morte, è evidente che il suo destino sarà altro. A lui tocca, nel disastro di Troia, di farsi «pio» – cioè obbediente al volere degli dei e del Fato, «conservatore» dei Penati di casa, «pietoso» come pochi altri eppure incapace di risparmiare Turno alla fine della guerra in Lazio. Guerra, per di più, di conquista: perché i Troiani stanno tentando di impadronirsi di una terra che non è la loro, sono tra i primi Conquistadores di sempre, ed Enea si prende la giovane Lavinia che è innamorata e promessa a Turno: per principiare la discendenza che poi fonderà Roma. A questo stesso fine, egli deve perdere la moglie Creusa nel caos dell’ultima notte di Troia, né può restare in unione perpetua con Didone regina di Cartagine.
Insomma le origini di Roma costano un bel po’ a Enea, che tutto sopporta soffrendo (tremendamente, nel caso di Didone), ma con equanimità. Per raccontare un uomo così – dopo i tanto diversi Agamennone e Ulisse – ci voleva un narratore come Guidorizzi: attento all’Eneide, all’antropologia che sta dietro all’antica narrazione, ma libero ri-scrittore: che elimina gli interventi diretti delle divinità, ma non i sogni; che altera la sequenza originale, ma non nasconde nulla, che non resiste a citare l’originale quando è irresistibile: «Era notte e in terra i corpi stanchi godevano il dolce sonno, tacevano le selve e il mare crudele, le stelle si volgevano a metà del corso». Leggendo Enea, si prova talvolta la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che assomiglia al Roman d’Eneas, quell’opera (in versi francesi) composta nel XII secolo, che contribuì in maniera decisiva alla nascita del romanzo medievale. È vero, nel Roman c’è la storia d’amore tra Enea e Lavinia, che qui invece è assente. Ma l’andamento narrativo pare, nelle cadenze, simile.
Ho letto Enea: lo Straniero tutto d’un fiato: preso, evidentemente, dal ritmo e dallo stile del narrare. Poi, l’ho accantonato per qualche giorno, per vedere cosa mi aveva colpito e mi era rimasto in mente. L’apertura fulminante con l’imperatore Filippo l’Arabo che celebra il millennio di Roma nel 248 d.C., il principio della città nel melting pot, l’«umile Italia» di Virgilio e di Dante: questo non era stato cancellato. La notte della presa di Troia, lacrime infinite delle cose: non le racconta, qui, Enea a Didone, le vive. Il Cavallo, Laocoonte e i suoi figli, Sinone, Neottolemo che sgozza Priamo sull’altare di casa; la fuga, la scomparsa di Creusa. Anche questo era forte dalla prima impressione. Le tappe del viaggio, Tracia, Delo, Creta, Cartagine. La storia di Didone, dall’amore intenso per Sicheo alla nascita della passione per Enea: il suo venirne a coscienza, quell’«adgnosco veteris vestigia flammae», il «conosco i segni dell’antica fiamma», la notte tremenda del suicidio. Tutto è eseguito con passione e con pena. Dopo il ramo d’oro e la discesa all’Ade (manca, qui, l’ostensione del futuro di Roma da parte di Anchise), le cose si confondevano nel mio ricordo, come del resto sempre mi era successo con Virgilio: Latino, la vergine Camilla, Eurialo e Niso, le leggende del Lazio primitivo. Ho dovuto rileggere, sentire la forza oscura del mito.
Ma fin dall’inizio avevo trovato il Fato. C’è un pezzo, al centro del libro, che spiega buona parte del tutto. Didone avrebbe voluto un figlio da Enea. «Ma le Parche che filano i destini di tutti non glielo concessero. Perché? Non lo sanno neppure loro: le Parche non guardano gli uomini, non giudicano, non ordinano. Filano, tagliano, fanno ruotare il fuso e intonano senza fine la loro cantilena: il carmen, la nenia magica che governa tutto. No, noi esseri umani non siamo diretti dal caso, ma neppure dalla nostra volontà. Fatum, da fari “dire”: ciò che è stato detto, una volta sola e per sempre. E il carmen fatale delle Parche si spande nell’universo e riempie ogni spazio tra stella e stella; è la parola a creare il destino, ma la parola non appartiene a chi la canta, nemmeno alle Parche». Ecco, era questo che impediva che Didone avesse figli. «Come solo nei luoghi deserti, se tutto tace e non vi è voce o traccia di uomo o di animale, può accadere che si intenda la silenziosa voce del vento, così solo in certi momenti, se l’anima è aperta e nulla, proprio nulla, la ingombra, può accadere che si senta, esilissimo e per un solo attimo, il fruscio del filo che si srotola, e solo per un attimo si percepisca il destino che compie il suo eterno ciclo e conduce in un luogo sconosciuto».Enea lo straniero, il migrante: da Troia all’Italia, scrive Virgilio, «per volere del fato».