È finalmente uscita l’Odissea di Kazantzakis


― 21 Dicembre 2020

Piero Boitani, Il Sole 24 Ore

L’attendevo da cinquant’anni, per l’esattezza dal 1972, quando in una brumosa giornata di gennaio entrai in una libreria di Londra e acquistai, per tre sterline e mezzo (era il costo di una bistecca con – poche – patatine, allora) una copia dell’edizione americana tradotta da Kimon Friar per Simon and Schuster nel 1958. L’Odissea di Kazantzakis! Lui, universalmente noto per Zorba il greco, ma autore anche dell’Ultima tentazione, di Francesco, della Seconda crocifissione di Cristo, traduttore della Divina Commedia, scrittore infaticabile in prosa e in versi. Lei, il seguito moderno dell’Odissea, le mirabolanti avventure di Ulisse quando riparte per quella che il predecessore di Kazantzakis, Kavafis, chiamava Seconda Odissea, ma che è nota nella letteratura di mezzo mondo come narrazione dell’“ultimo viaggio”: inventato da Dante nel Canto XXVI dell’Inferno, e re-inventato da Tennyson nel monologo Ulisse congiungendo insieme la profezia di Tiresia nel Libro XI dell’Odissea omerica e il suo compimento “figurale” nel racconto dantesco.

Omero con l’originale, Dante nell’Inferno, e Tennyson nell’Ulisse se la cavavano, rispettivamente, con circa dodicimila esametri (suddivisi in ventiquattro libri dai grammatici alessandrini) il primo, con una sessantina di endecasillabi in terzine il secondo, e con una settantina di pentametri giambici in blank verse il terzo. L’ultimo viaggio di Pascoli, uscito nei Poemi conviviali del 1904 e appartenente alla medesima tradizione, arriva sino a 1211 versi in ventiquattro canti. L’Ulisse di Joyce, 1922, l’immensa “opera mondo” romanzesca che fa compiere all’eroe omerico, nelle vesti dell’ebreo irlandese Leopold Bloom, una odissea di una giornata dentro Dublino, si estende sino a ottocento pagine di prosa. Kazantzakis, tra il 1925 e il 1938, compone la bellezza di 33.333 giambi di otto battute e diciassette sillabe, sovvertendo la metrica e la lingua neogreche.

Ulisse non è, nel poema di Kazantzakis, il fantasma che compare al suo successore Seferis in Sopra un verso straniero e, mormorando “di tra la barba imbianchita”, dice “l’ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie della memoria” e l’“amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari, dispersi”. È piuttosto uomo che lotta “dentro il mondo”: un uomo, che tende a divenire superuomo, il quale riprende tratti di Ulisse e di Faust; che si reca innanzitutto, nella fuga da Itaca, a Sparta rubando Elena a Menelao; poi a Creta – dove la decadente civiltà minoica sta per essere rimpiazzata dai biondi invasori Dori provenienti dal Nord; quindi in Egitto e su fino alle sorgenti del Nilo. È un inquieto ricercatore di luoghi sconosciuti e di verità sepolte in comunione spesso con l’assoluto, come quando sale sul monte quasi fosse Mosè. È un Ulisse che non esita dinanzi al gentil sesso, né a partecipare alle rivoluzioni che scoppiano nei paesi da lui visitati, anzi le fomenta quando vede una cultura e una società, marce, sul punto di cedere, come, dopo Creta, in Egitto. E che riesce a costruire una Città ideale, a realizzare l’utopia terrena.

L’Odissea di Kazantzakis è fatta, all’interno della linea che vede Ulisse in peregrinazione da Itaca, attraverso il Mediterraneo, sino in Africa e sempre più a sud, da una quantità sterminata di episodi, di incontri e di personaggi dei quali, come anche della lingua, è impossibile parlare qui. Crocetti, che ha compiuto l’opera immane di tradurre il poema con mirabile dedizione e un successo grande di ritmo e di leggibilità, aggiunge ai temi che ho indicato il fondamentale “perseguimento della libertà a tutti i costi”; e accenna, nella scia di Friar, alle influenze principali sul pensiero di Kazantzakis, quelle di Bergson e soprattutto di Nietzsche, cui giustamente vengono affiancati Dante, Darwin, Frazer e Spengler, su di un orizzonte di motivi buddisti, cristiani e leninisti.

Dal Canto XXI Ulisse, giunto all’estremità meridionale dell’Africa, decide di procedere da solo verso l’Antartide. È la parte più commovente e più importante del poema, che muove adesso verso la morte del protagonista. Sullo sfondo dell’aurora australe prima, e poi della grande distesa dei ghiacci, Ulisse sale su un iceberg per i suoi ultimi giorni. Due interi Canti sono dedicati alla sua fine. All’inizio del Canto XXIII il poeta, come già nel Proemio, invoca il Sole pregandolo di accogliere in “tenero abbraccio” il “grande Arciere” mentre questi, Ulisse, dice addio alla vita e chiama a raccolta tutti i suoi compagni. Le loro ombre – tra le quali Centauro, Orfeo, Granito, il Roccioso, Elena, Fida, il Pescatore (Gesù), il vecchio cane Argo – si affollano attorno a lui: insieme a esse, gli alberi, i frutti, gli animali, e i suoi antenati mitici Tantalo, Prometeo ed Eracle. Ulisse benedice i quattro elementi, poi si spegne: il corpo svapora, si dissolve, “e la grande mente balza sulla vetta del suo riscatto”. Ta pànta pià sàn pàchne skòrpisan kai mià krabghè monàcha: “tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta / sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne: ‘Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!’”.


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