Maurizio Bettini, La Repubblica
Oh Lisistrata! Quella commedia in cui le donne fanno lo sciopero dell’amore!». Questa, più o meno, l’immagine che circola del capolavoro aristofanesco, sia che giunga da ricordi scolastici, sia che affiori dal semplice sentito dire. Non che questo non sia vero. In effetti la trama della commedia è la seguente: le donne ateniesi e le donne spartane, assieme alle beote e alle corinzie, si alleano fra loro e giurano di non accogliere più i mariti nel proprio letto finché Atene e Sparta — cioè gli “uomini” di queste due città — non la smetteranno di far la guerra. E in questo modo riescono a ottenere la pace. Solo che nella Lisistrata di Aristofane, commedia ormai leggendaria, c’è molto più di qualche marito visibilmente eccitato (e frustrato) o di un gruppo di donne decise a negarsi (anche se qualcuna ogni tanto vacilla); c’è molto di più, insomma, di un’atmosfera di sessualità trattenuta che sembra esplodere a ogni momento — ragion per cui liberamente esplode, al suo posto, la risata, che l’inarrivabile fantasia comica aristofanesca è capace di scatenare quasi a ogni battuta. Questa commedia infatti dice anche molto sulla donna greca, sulla donna in generale, sulla guerra, sulla pace, sulla città, sulla cittadinanza stessa…
Insomma la Lisistrata è un testo che, mentre trascina per le allegre vie della satira, del sesso e del doppio senso, fornisce anche un quadro straordinario della vita greca, invitandoci a riflettere, nello stesso tempo, su temi che sono ancora (purtroppo) tragicamente attuali. Nel 1958 Garinei e Giovannini riscrissero la Lisistrata sotto il titolo Mai di sabato signora Lisistrata, ed erano gli anni in cui si viveva sotto l’incubo dello scontro fra le due superpotenze. E chissà quante donne americane e vietnamite prima, afghane o irachene dopo, nel seguito del Novecento avrebbero voluto impedire con ogni mezzo ai loro uomini di accanirsi in guerre sanguinose; proprio come oggi lo desidereranno atzere e armene, eritree etiopi o tigrine, e così via. Donne che, proprio come le ateniesi e le spartane di Aristofane, perdono padri mariti e figli per questa antica festa crudele che gli uomini non si stancano di celebrare: la guerra. Pur se, da qualche decennio in qua, anche le donne hanno deciso di partecipare alla festa, imbracciando le armi. La Lisistrata costituisce dunque qualcosa di unico, perché invenzione, comicità, sesso e dramma vi si fondono senza residui.
Per fortuna, chi oggi voglia tornare a questo testo straordinario sa dove rivolgersi. Nella collezione “Lorenzo Valla” è uscita infatti l’edizione curata da una delle nostre migliori greciste, Franca Perusino, che accompagna il testo greco con un nuovo apparato critico, un ricchissimo corredo di note e un’introduzione davvero felice; mentre la traduzione è condotta da uno studioso che alla competenza del filologo aggiunge anche l’eleganza e la felicità della scrittura, Simone Beta. Perché tradurre Aristofane è difficile, anzi difficilissimo. Trasporre in una lingua diversa le metafore, le arguzie, le allusioni che fluiscono dalla fantasia aristofanesca è un’impresa che a ogni passo rischia di finire come quella di Sisifo. Beta però ci riesce, in certi casi ricorrendo ad astuzie linguistiche che i greci (ammiratori della metis, l’intelligenza furba) avrebbero certo apprezzato. Insomma è uscita una Lisistrata da studiosi e, nello stesso tempo, da semplici, ma appassionati lettori. Non capita tutti i giorni.
Eccoci dunque di fronte alla donna ateniese. Certo essa «appartiene alla città», è una asté, come dicono i greci. Vi appartiene nel senso che ci vive ed è moglie e madre di cittadini ateniesi; partecipa alle cerimonie religiose per la componente femminile che esse richiedono; riceve la “educazione” ateniese che Lisistrata stessa loda, elencandone le tappe e i pregi: ma non è una vera e propria “cittadina”. Nel senso che non esercita cariche di rilievo all’interno della polis, se si esclude il ruolo di sacerdotessa, e soprattutto non va in assemblea, non vota: non ha voce, cioè, nel luogo in cui si prendono le decisioni rilevanti per tutti gli abitanti della città. Come appunto è il caso della guerra in cui, pur non combattendola direttamente, le donne si trovano coinvolte sia per i rischi corsi dai loro congiunti maschi, sia per le disastrose conseguenze economiche e sociali che la guerra comporta. Ecco allora che le donne di Aristofane, guidate da Lisistrata, osano l’inaudito, come il coro dei vecchi cittadini (peraltro ridicolizzati e sconfitti) rimarcherà più volte: occupano l’Acropoli, vale a dire il cuore stesso di Atene, religioso politico ed economico. E nello stesso tempo giurano che non si concederanno più ai propri mariti finché la pace non sarà siglata — perché sono stufe di «vedere gli uomini andare in giro armati per il mercato, come dei pazzi». Con questo loro inaudito comportamento le donne affermano qualcosa di altrettanto inaudito, ossia che la guerra è anche una cosa da donne: una faccenda in cui anche queste semplici “appartenenti alla città” hanno il diritto di decidere. Respinti dunque gli attacchi dei vecchi cittadini, le donne riescono a far siglare la pace fra gli ateniesi e gli spartani, i quali sono giunti alla conclusione che è meglio farla finita con la guerra: perché anche le loro mogli rifiutano di concedersi.
La Lisistrata è una commedia pacifista, certo. Perché il ribaltamento dei ruoli, l’ironica lucidità con cui la follia della guerra viene sbugiardata dalle donne ribelli, esprime una condanna molto più potente di mille sermoni. Ma è anche una commedia femminista? Sì e no, come sempre si finisce per rispondere quando si cerca di applicare categorie moderne alla cultura antica, irriducibilmente “altra” rispetto alla nostra. Lo è perché attribuisce alle donne un diritto di parola e una capacità di iniziativa rivoluzionarie rispetto ai paradigmi tradizionali della cultura greca, che esigono mogli sottomesse al marito, che curano il buon andamento dell’oikos. Così come lo è quando (cosa altrettanto inedita) Lisistrata rivendica per la moglie un diritto paritario nel piacere dell’amplesso. Ma nello stesso tempo non è un testo femminista perché le donne della Lisistrata (come nota Perusino) non intendono mantenere il potere conquistato: vogliono solo ricostituire il nucleo familiare che la guerra minaccia di distruggere, chiedono insomma un ritorno alla normalità. Né dobbiamo dimenticare che, femminista quanto si vuole, questo testo è pur sempre opera di un uomo. E come scrisse ai suoi dì Audre Lord «gli attrezzi del padrone non serviranno mai a smantellare la casa del padrone».