Lisistrata, quando le donne uscirono dai ranghi


― 15 Aprile 2021

Daniele Ventre, Alias – Il Manifesto

Fra le commedie dell’Aristofane tardo e in ispecie fra le cosiddette commedie delle donne, la pièce che mette in scena la paradossale, apparente rivoluzione di genere orchestrata da Lisistrata e da tutte le donne greche contro il predominio maschile, ormai autofagico e distruttivo, è la più famosa. La rivoluzione è paradossale perché tramata in sé di paradossi antropologici: radicata com’è nei fondamenti primitivi della società attica, in cui domina la rigida divisione fra la casa degli uomini – lo spazio pubblico della politica, della guerra e della scena – e la casa delle donne – la dimensione privata della famiglia e del gineceo –, esprime, sia pur solo a livello di rappresentazione ipotetica, la possibilità che siano le donne a imprimere la svolta definitiva a una civiltà che nella violenza divora sé stessa. Pensata per il pubblico dei polîtai, i cittadini dell’imperfetta democrazia ateniese, che nei confronti delle donne coltivavano una ambigua doppia verità fra pregiudizi maschilistici, censura della libido e guerra fra i sessi, scatena la più virulenta delle rappresentazioni comico-realistiche, nella teatralizzazione del desiderio fisico e della corporeità. Giocata tra frustrazione e appagamento, attesa ed elusione dell’attesa, repressione e liberazione, la Lisistrata è forse il testo più vicino a noi, e anche da noi più frainteso, del teatro comico antico: spesso esposta, in traduzione, a perdere molto dell’effetto originario sui suoi fruitori, che la leggano o la vedano recitata. A perdere consistenza e impatto sono, in primo luogo, i valori formali della poesia, livellati dalla tendenza predominante della traduction des professeurs ad addomesticare, per diffidenza spontanea e spesso non del tutto giustificata, il ritmo nel flusso amorfo del rigo di prosa.

La Lisistrata recentemente recata in italiano da Simone Beta per la Fondazione Valla/Mondadori (testo con apparato critico e ampio commento filologico a cura di Franca Perusino, pp. CVI-345, euro 50,00) si distingue invece come raro esempio di traduzione attenta alla tornitura stilistica e ai valori formali: non addomestica il testo, ne mantiene la freschezza e la forza espressiva, la ruvidezza e la virulenza verbale, soprattutto conserva come può, grazie alla peculiare scelta di Beta, quell’unione irripetibile di musicalità raffinata e spontaneità feroce e violenta della commedia antica in genere e di Aristofane in particolare. La commedia antica, alla cui complessa (e per noi mutilata) storia Aristofane appartiene, è la smascellata sublime dello spirito del rinascimento ellenico: forte della parrhesía e dell’isegoría, cioè della libertà e dell’eguale facoltà di parola e di opinione che sono proprie del cittadino di una democrazia, il poeta comico del V secolo a. C. piega il teatro alla denuncia sociale, anche all’attacco diretto ai potentati di turno, in un modo non troppo dissimile dai comici attuali che fanno satira politica all’interno della vita culturale delle democrazie moderne (quando non sono troppo inquinate dal declino dei princìpi politici e dal degrado etico della società civile). La commedia di Aristofane veicola un messaggio di rottura più o meno sottile, che pone in evidenza le contraddizioni di una formula politica o la spietatezza delle condizioni oggettive di una temperie storica.

Un possibile equivalente formale, se non proprio tematico e delle libertà politiche, a partire dall’asse dei paradigmi poetici della letteratura italiana, è (mutatis mutandis) la commedia rinascimentale à la Machiavelli, con i suoi dialoghi resi in una scattante prosa d’arte di grande immediatezza, alternati a momenti corali in versi (un esempio tipico è costituito dall’allegoria politico-esistenziale della Mandragola). Questo impianto, con i dovuti adattamenti, è ripreso nella traduzione di Simone Beta, che agli agili e liberi trimetri giambici del dialogo, come ai versi del recitativo dell’originale, fa corrispondere una non meno agile prosa ritmica, estremamente sorvegliata, tramata di endecasillabi e settenari, tanto che i diversi cola – i membri cadenzati che la compongono –, sia pur segnati da occasionali iati e dialefi, hanno immediata riconoscibilità all’orecchio dell’ascoltatore attento: si pensi anche solo alla prima battuta (apparentemente in prosa) di Lisistrata: «Ma se qualcuno le avesse invitate, | le donne, a una festa | in onore di Bacco | o alla grotta di Pan, | o al tempio di Afrodite Coliade, o al santuario delle dee Genetillidi, non si potrebbe passare | a causa del rumore dei tamburi…». Queste cadenze, che nei dialoghi affiorano disseminate nei momenti più significativi (si oserebbe dire, negli hot spot performativi) o nei punti di interfaccia fra parti liriche e parti recitate, si manifestano palesi nei versi dei cori.

In questa forma, la traduzione rende appieno la forza della commedia, non tanto di questa singola commedia, quanto della palaia komodía come tale, di cui Lisistrata è simbolo. «Io non sarei mai stanca di ballare, / e nemmeno uno sforzo faticoso / mi farebbe piegare le ginocchia. / Voglio affrontare ogni difficoltà / insieme a queste donne valorose: / dentro di loro / c’è forza di carattere, c’è fascino, / c’è una coraggiosa improntitudine, / c’è la sapienza, c’è la saggia virtù / che prova amore per la sua città»: nel coro delle vecchie (vv. 541-548) la kharis e il thrasos, il «fascino» e la «coraggiosa improntitudine» che caratterizzano le donne ribelli, occupatrici dell’acropoli, sono anche allusione metapoetica alla dimensione poetica e politica della commedia. Questi pochi versi, che citiamo a titolo di esempio, rendono conto della musicalità che Beta è riuscito a produrre nella sua ri-creazione del testo, ma anche dello scavo concettuale che la traduzione attua sulle parole chiave del linguaggio comico. E del resto improntitudine coraggiosa, se non addirittura audacia, era necessaria al poeta anche tenendo conto dell’atmosfera generale della polis ai tempi della composizione della Lisistrata; l’opera fu messa in scena poco prima dell’instaurazione della dittatura dei Quattrocento. Prima che la crisi fosse definitiva, la poesia comica si manifesta ancora una volta nella sua carica dirompente. Per forza di cose, la sua matrice generativa è legata all’origine tribale del giambo, al gioco osceno della fertilità che lo accompagna, alla spudoratezza che necessariamente corona questo gioco osceno, che senz’altro oggi suona politicamente assai scorretto, ma anche all’epoca era gravido di inquietanti allusioni alla memoria storica della città.

Lisistrata realizza in effetti una prise de pouvoir, una presa di potere: l’occupazione dell’acropoli, a memoria d’uomo ateniese, era sempre stato il primo passo verso la tirannide; la tentò per esempio l’atleta Cilone nell’ultimo quarto del VII secolo, finendo peraltro chiuso e accerchiato, forzato a morire di fame sulla rocca che con i suoi uomini presidiava. Tuttavia, la prise de pouvoir femminile è l’esatto contrario di una instaurazione della tirannide: è il temporaneo coup d’état della pace e della fecondità primigenia contro il predominio legalizzato del pólemos. Soprattutto, come è chiaro sin dall’inizio, è espressione di uno stato di necessità estremo. Scrive Franca Perusino, nella sua introduzione alla commedia, che «la Lisistrata è una commedia al femminile, non una commedia femminista». Le società antiche sono omeostatiche, non ammettono la rivoluzione come valore-limite positivo, né il cambiamento come progresso: tendono a conservarsi eguali a sé stesse, prevedendo al più l’allargamento della base di consenso tramite lenti processi inclusivi: in tale ottica l’uscita dai ranghi è sempre un paradosso determinato da uno stato di forza maggiore, di costrizione o di pericolo.

Le donne di Aristofane escono solo per un breve istante, per ricondurre i loro uomini nei ranghi, restaurare la condizione naturale della pace e poi ritornarsene nello spazio privato, in cui la democrazia imperfetta di Atene le relega. Il teatro aristofaneo si colloca così, nel cuore dell’antico e della sua visione, a esprimere un messaggio che dell’antico travalica i limiti e si presta a letture che il poeta stesso, come sovente accade, non contempla, non prefigura, o avrebbe perfino ritenuto sospette. È un testo bifocale, e l’esegesi della curatrice ne pone in evidenza tutte le sottigliezze e i problemi; un’erma bifronte del teatro antico, di cui la traduzione di Beta, con il suo gioco a cavallo fra prosa e verso, fra ritmo neo-rinascimentale e tradizione novecentesca, rende trasparente al lettore contemporaneo la natura profonda.


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