Daniele Ventre, Alias – Il Manifesto
La costituzione critica del testo di Properzio richiede un estremo esercizio di acume da parte dello studioso che con coraggio vi si accinga, a causa delle vicissitudini intricate della tradizione manoscritta. Ora Paolo Fedeli, la cui attività di ricerca filologica è ben nota per vastità e profondità di interessi, mette a frutto i suoi robusti contributi in materia nell’introduzione e nella limpida nota al testo dell’edizione delle Elegie da lui stesso curata per la Fondazione Valla (primo volume, Libri I-II, Mondadori, pp. LXXXIX-416, e 50,00). Properzio scrisse verosimilmente di propria mano le prime stesure delle sue elegie, solo in un secondo momento ricorrendo alla dettatura; venuto da una famiglia in dissesto dopo le guerre civili, riuscì a sopperire alle esigenze della diffusione delle sue opere grazie all’aiuto di illustri patrocinatori, prima Lucio Volcacio Tullo, come lui originario di Assisi, poi, a partire dal secondo libro, Mecenate in persona. Le elegie vedono così la luce, a partire dal 29/28 a.C., data di pubblicazione verosimile della Monobiblos, la prima, autonoma, sezione, fino ad arrivare agli anni fra il 20 e il 16 a.C., epoca dell’uscita del IV libro, compiuto poco prima della morte, che lo colse non molto più che trentenne.
Ovidio esule a Tomi lo menziona come ricordo dell’atmosfera di Roma, in una sorta di canone sentimentale e nostalgico della poesia augustea. Marziale, Giovenale e Stazio, fra età domizianea e traianea, lo citano a vario titolo, come oggetto di dono raffinato, come poeta che risente della fascinazione di figure femminili suadenti e corrotte, come contraltare latino, insieme a Tibullo, dei poeti elegiaci alessandrini. Il celebre e cerebrale sofista, stregone e romanziere della tarda età antonina, Lucio Apuleio, lo include nella sua pruriginosa indagine sui nomi originali delle donne amate dai poeti della latinità «aurea», identificando come Hostia la Cinzia, volubile e tormentata dark lady, indiscussa protagonista della maggior parte del canzoniere properziano, dall’elegia d’esordio – in cui la si canta come prima ad aver acceso la vera passione del poeta –, ai carmi del discidium, della separazione definitiva.
Consonanza
con l’amor cortese
Con la
tarda antichità, dilaniata fra opposizione cristiani-pagani,
misticismo, mediazione culturale, fanatismo, compromesso, moralismo,
la fortuna di Properzio viene declinando, via via relegata nelle
sporadiche citazioni dei grammatici: il suo Fortleben,
cioè la sua sopravvivenza, rischiò di arenarsi fra le paludi
storiche dell’alto medioevo, per poi riaffiorare in Francia, nella
seconda metà del XII secolo, epoca in cui il poeta di Cinzia è
imitato, insieme a Ovidio, nell’anonima commedia elegiaca latina
medievale Pamphilus.
A riattivare l’influenza di Properzio sulla poesia europea è la
sua intima consonanza con le tematiche dell’amore cortese; è ai
secoli XII-XIII che risalgono i più autorevoli e antichi manoscritti
dei quattro libri delle elegie: personaggi come Francesco Petrarca
(copista colto e possessore di un codice oggi perduto), Poggio
Bracciolini, Coluccio Salutati sono coinvolti nella tradizione e
nella riscoperta definitiva, in età rinascimentale,
dell’opera.
L’avventurosa sopravvivenza dei codici che ne
tramandano il testo non è l’unico elemento a rendere difficile la
sistemazione critica dei versi di Properzio. Lo stesso tono
stilistico dei suoi distici, e la struttura complessiva dei
componimenti, rendono ancora più impervio il cammino del filologo e
del traduttore. Properzio definisce se stesso il Callimaco di Roma,
riferendosi per lo più al quarto libro. In realtà la poetica
dell’elegiaco umbro si fonda in tutta la sua opera su una ricerca
stilistica raffinata, una sofisticatezza che si traduce non solo
nella scelta di exempla mitologici
rari o relativamente poco frequentati, ma anche in una sintassi assai
elaborata, immagini estreme, nessi aggettivo-nome ardui e preziosi:
soprattutto, la tendenza (famigerata fra gli editori critici) agli
esordi ex abrupto,
che sembrano collegare il discorso poetico palese e verbalmente
articolato a una sorta di poesia non scritta, o premessa ideale, che
l’autore volutamente occulta al lettore, o vuol lasciar
presupporre, con i suoi ergo, et
merito, che rendono spesso opaco il
confine fra elegia ed elegia. Chi abbia appena un po’ di
frequentazione della poesia antica e delle sue sopravvivenze formali
nella modernità e nel mondo contemporaneo, ha ben presente come
tanta complessità, questo stile elaborato e grandioso che gli
antichi chiamavano kharaktèr
megaloprepés («timbro
sublime»), abbia trovato sponde in esperienze poetiche diversissime
fra loro, da Foscolo all’Hommage
to Sextus Propertius di Pound,
una versione-riscrittura che a suo tempo i latinisti americani
attaccarono con virulenza.
Una
trasparenza quasi didascalica
La
traduzione di Paolo Fedeli, che fra l’altro, come si è detto, si
giova di un percorso pluridecennale cominciato nel 1965 proprio con
il quarto libro, si connota come una sistematica resa di servizio, i
righi di prosa, non scevra da qualche pointe di
modernizzazione – si sarebbe tentati di dire, di domesticazione –
del dettato poetico properziano, allo scopo di rendere più
trasparente possibile, di una trasparenza quasi didascalica, il
rapporto fra testo latino e versione italiana. Considerando le
difficoltà insite nell’originale, al traduttore di Properzio si
aprono infatti le due consuete opzioni, fra resa del testo orientata
sul target, sul lettore contemporaneo, e resa orientata sulla fonte.
Per i quattro libri di elegie, una
traduzione source-oriented comporterebbe
il tentativo di mantenere, per quanto possibile, le ambiguità e i
virtuosismi del testo originale, compatibilmente con le derive
stilistiche implicite della lingua d’arrivo. Fedeli sceglie una
traduzione più target-oriented,
esplicativa.
Basti pensare, a titolo d’esempio, alla versione
del distico finale dell’elegia I,12: mi
neque amare aliam neque ab hac desistere fas est: Cynthia prima fuit,
Cynthia finis erit. Questi versi
letteralmente suonerebbero «A me né amare un’altra né da lei
desistere è dato: / Cinzia fu la prima, Cinzia sarà la fine». Nel
testo originale abbiamo una variazione significativa fra i due membri
del verso conclusivo: Cinzia fu la prima amata dal poeta, con ripresa
del primo verso dell’elegia iniziale; in Cinzia egli vede il
termine e lo scopo della sua esistenza, e oltre lei nulla esiste.
Così Properzio stesso concepisce la sua donna, e ribadirà anche in
altri luoghi il concetto che la vita (e la morte) dell’amato sono
termine e fine esistenziale anche dell’amante: lo farà in modo
estremo nell’elegia III,13 rievocando il mitico suicidio di Evadne
sul rogo del marito Capàneo e intuendo la sua analogia antropologica
con la sati,
il barbarico sacrificio induista della vedova. Così dunque la
lettera del testo. Ma per i versi 19-20 dell’elegia I,12 Fedeli
restituisce in italiano il testo (corsivo di chi scrive ndr)
con: «A me non è lecito né amare un’altra né
desistere dall’amore per lei:
/ Cinzia è stata la prima, Cinzia sarà anche
l’ultima». Il lettore si trova
così davanti un messaggio più quotidiano, più diretto, più
consueto, più vicino alla sua attesa ordinaria. L’espressione di
un esegeta scrupoloso e analitico, che chiosa per il lettore
comune.
Questo spirito di servizio esplicativo, di ricerca della
chiarificazione del testo anche a costo di diluirne l’espressività,
dà le sue prove migliori sia nel commento, agile ed esauriente, che
guida chi si avvicina a Properzio attraverso la fitta rete dei suoi
richiami alla tradizione poetica e mitologica, sia nell’apparato a
piè di pagina, che compendia i risultati di un lavoro
critico-testuale di prim’ordine, da studioso di lunghissimo corso
dei tesori dell’elegia latina. Nella sua aurea limpidezza
filologica questo Properzio è dunque da considerarsi un possesso
irrinunciabile non solo per la biblioteca dell’antichista di
mestiere, ma anche per chi voglia andare oltre la superficie dei
classici, cercando di toccarne le corde più intime.