Piero Boitani ricorda Pietro Citati

Piero Boitani
― 3 Agosto 2022

Scompare con Pietro Citati, il 28 luglio 2022, a 92 anni, una delle due o tre figure che hanno fatto la cultura italiana degli ultimi sessanta anni.

Sapeva pressoché tutto della letteratura di mezzo mondo (terzo, in questo, a quelli che considerava gli onniscienti, Santo Mazzarino e Mario Praz): non solo quella italiana ed europea (mirabilmente esaminate nei saggi del suo Meridiano Mondadori, La civiltà letteraria europea), ma anche quelle del Medio e dell’Estremo Oriente; e, naturalmente, la greca e la latina, pagane e cristiane, arcaiche e tarde. Era un lettore formidabile, del romanzo o della raccolta lirica pubblicati ieri come di testi antichi dimenticati dai più, e di dattiloscritti affidatigli da giovani studiosi. Giudice implacabile dei professori universitari e di tanti che chiamava semplicemente “cretini”, sapeva riconoscere l’intelligenza e la bravura. Non aveva peli sulla lingua nei confronti dei primi, ma infinita gentilezza, sentimento di paternità e protezione nei confronti dei secondi. Incuteva timore persino ai grandi, ai quali tagliava senza pietà pezzi interi dei loro scritti. Durante le nostre chiacchierate equoree nel mare di Castiglione della Pescaia, dove a Roccamare aveva la residenza estiva, succeduta a quella della immensa “Castellaccia” nell’interno grossetano, raccontava aneddoti esilaranti su tutti. Mi disse una volta che a una conferenza di Contini su Gadda, questi lo invitò a sedersi accanto a lui, “Così mi spiega quel che dice”.

Ricordava volentieri gli anni della Guerra, quando, sfollato con la famiglia da Torino a Cervo Ligure, guardava dalle finestre di casa i movimenti sul mare. Una volta – siamo nel 1941 – sbucò a fior d’acqua un sommergibile inglese, dal quale furono sparati colpi qua e là verso la terra. A un certo punto, emersero tranquilli e divertiti alcuni ufficiali, in bermuda e con le pipe in bocca. Si guardarono attorno. Poi, dopo la boccata d’aria mediterranea, riscesero indisturbati nel ventre del sottomarino, che subito scomparve nelle acque. La storia faceva il paio con l’altra “marina” di un suo viaggio con la madre da Genova a Napoli sul transatlantico Rex, del quale il padre, nel suo ufficio torinese della Italia di Navigazione, aveva un modellino lungo due metri che incantava il Pietro bambino. La Sala Giochi del Rex era foderata di pannelli lignei: se ne apriva uno, raccontava Citati, e rotolavano fuori giocattoli meravigliosi, senza fine: il mondo dei balocchi.

Più spesso, le chiacchierate riguardavano la letteratura, o il mito. Citati amava il mito, di tutte le culture e di tutte le latitudini, e uno dei suoi libri più belli è La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo (Mondadori, 1996), un volume affascinante, che va dai re di Micene a Leopardi, e sotto l’influenza di Ermes, Saturno e Iside, dal ghiaccio che avvolge gli sciti alla caduta degli dèi, dalla «luce della notte» di Apuleio alla «luce della notte» di Mozart e Schikaneder. In tutte le sezioni meo due, come anche dentro ai singoli quadri, ascendere, librarsi per un attimo, e decadere sono movimenti costanti che s’inseguono l’un l’altro. Quando scriveva di miti – o di Alessandro Magno, che sul mito aveva modellato la propria vita – Citati assomigliava a Plutarco, ai tempi del quale, diceva, gli sarebbe piaciuto vivere. E in nessun libro suo è ciò più vero che ne La mente colorata: Ulisse e l’Odissea, volume tra gli ultimi forse il più bello. Del quale, per reciproco pudore – poiché anch’io ne avevo composto uno sullo stesso argomento – mai parlammo sino alla sua uscita, ma invece a lungo la sera prima dell’11 settembre 2001, quando i due aerei in folle volo ridussero in briciole le Torri Gemelle, ma non la statua di Ulisse collocata dietro di esse. Citati raccontava l’Odissea rivelandone la trama etica e teologica, puntava sulle similitudini principali e le interpretava, ne scopriva la nuova poetica. Era un libro, La mente colorata, che conquistava immediatamente, e in virtù del quale divenimmo ancora più vicini.

Lui, l’iniziatore o l’animatore di collane, come la Valla (sulla quale seguirà un mio pezzo su questo stesso giornale), i Classici dello Spirito nei Meridiani, «Islamica»; collaboratore e consigliere di editori. Recensore brillante e temuto. Lo ammiravo e non ho mai tentato di imitarlo: nessuno avrebbe potuto, e i nostri metodi, come egli stesso riconosceva, erano profondamente diversi: lui prendeva un’opera, o preferibilmente un autore, e, dopo aver letto tutto su di loro, sviscerava le dimensioni più intime, i gangli vitali della psiche dello scrittore, della trama, dei personaggi. Io cercavo le relazioni tra i testi, volando d’immagine in immagine, e di letteratura in letteratura. Lui narrava la vicenda di uomini e donne, come nel Tolstoj, nel Proust, nel Kafka, nella Katherine Mansfield, oppure nel Don Chisciotte e nello Zelda e Francis Scott Fitzgerald. Infine, nel supremo Leopardi, libro che dodici anni fa, nel 2010, dichiarava sarebbe stato l’ultimo che avrebbe scritto: una sintesi unica di biografia e di analisi della poesia, che collocava al centro il Discorso sulla poesia romantica, lo Zibaldone, L’infinito (il memorabile infinito mentale), le Operette morali.

Tutto era iniziato quarant’anni prima, col miracoloso Goethe, il libro che, nel 1970, virtualmente inaugurava la fase maggiore della sua attività, e un momento del tutto nuovo della critica in Italia. Era “critica narrativa”, ebbe a dire Calvino, la storia del poeta tedesco tra il Wilhelm Meister e il secondo Faust. Ma era anche un discorso mitico su Ermes e l’origine della poesia, su Elena e la discesa delle Madri, sulla rugiada lunare. Il libro aveva la qualità di una sinfonia (stranamente, perché l’autore non s’era mai curato di musica) e forse rispondeva ai criteri di quella Armonia del mondo cui Citati dedicò un’altra delle sue formidabili raccolte di saggi. Era un volume così eclatante che io lo citai nella mia tesi di laurea, che con Goethe non aveva nulla a che fare. Anni dopo, quando glielo dissi, si commosse. Citati, che ha collaborato con diversi quotidiani – Il Giorno, il Corriere della Sera, la Repubblica – riprendeva spesso, rivedendoli, i lunghi articoli che vi aveva pubblicato facendoli divenire saggi di considerevole unità tematica: e non solo, infatti, ha appena pubblicato Dostoevskij. Il Male Assoluto, ma stava preparando per Adelphi La ragazza dai capelli d’oro. Pietro Citati ripeteva spesso che la critica non dura più di due o tre anni. La sua, credo, continuerà a dar frutti per qualche decennio in più.

Piero Boitani, «Il Sole 24Ore», 31 Luglio 2022


Piero Boitani è stato professore di letterature comparate all’Università “La Sapienza” di Roma e all’Università della Svizzera italiana (USI). Ha insegnato anche a Cambridge, Berkeley, Harvard, Toronto, dove è stato Northrop Frye Professor of Comparative Literature, e alla University of Notre Dame (Indiana). Anglista, biblista, studioso del mito e delle sue riscritture, ha vinto il premio Balzan nel 2016. È direttore letterario della Fondazione Valla.


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