Marco Beck, L’Osservatore Romano
Tenerorum lusor amorum, «cantore di teneri amori»: con questa elegante autodefinizione Ovidio, il più prolifico, il più immaginifico, il più inventivo esponente della grande poesia latina di età augustea, si consegna alla memoria della posterità aprendo la decima elegia del quarto libro dei Tristia, un’autobiografia compendiata in 132 versi. Lo sguardo del poeta, esule sconsolato, è nostalgicamente rivolto a un passato ormai irrevocabile, alla stagione di un trionfale successo letterario e mondano in una Roma imperiale non priva peraltro di contraddizioni. Alla politica moralizzatrice di Augusto, tendente a restaurare il rigore del mos maiorum, soprattutto nell’ambito del matrimonio e della famiglia, si contrapponeva una “borghesia” gaudente, proclive alla ricerca del piacere in ogni possibile declinazione, specie nella sfera dell’eros. E proprio di questo ceto dominante nella società post-repubblicana, della sua jeunesse dorée spregiudicata e sensuale, Ovidio era divenuto non solo l’acclamato interprete culturale ma anche un malizioso precettore, sia pure entro i limiti del bon ton.
Sospinto dal dinamismo di una inesauribile creatività, il poeta nativo di Sulmona aveva copiosamente celebrato il valore assoluto dell’amore eterosessuale, innalzando il genere dell’elegia erotica a un insuperato livello di virtuosismo espressivo: i 5 libri degli Amores, catalogo di svariate esperienze galanti; le Heroides, 21 immaginarie lettere sentimentali, indirizzate da famose eroine del mito greco ai propri sposi o amanti; il poema didascalico Ars amatoria, un “manuale” di strategie finalizzate alla conquista della donna amata, con un’appendice speculare sul versante femminile. Persino nel supremo capolavoro, Le metamorfosi, il lussureggiante poema epico che in 15 libri racconta ben 250 miti di trasmutazione da una condizione umana a una conformazione animale o vegetale, il tema amoroso è di gran lunga preponderante.
In breve volgere d’anni, l’esaltazione esistenziale e poetica dell’erotismo che aveva decretato la fortuna di Ovidio si capovolse per lui, paradossalmente, in fonte di sventura. Dall’altare della gloria salottiera precipitò nella polvere dell’esilio, nel gelo, nello squallore, nella desolazione della barbarica Tomi affacciata sul Mar Nero, ai confini della Scizia. Nell’8 d.C., infatti, la collera punitiva del divus Augustus aveva fulminato con l’ignominia della relegatio l’infelice lusor amorum che, da parte sua, non esplicitò mai, quasi per una prudente “retorica della reticenza” (Nicola Gardini), l’effettivo capo d’imputazione. Due soli enigmatici elementi lasciò trapelare, duo crimina, carmen et error: un probabile rimando, con carmen, alla mai tollerata licenziosità dell’Ars amatoria; una plausibile allusione, con error, a un oscuro coinvolgimento nello scandalo sollevato dalle trasgressioni adulterine di Giulia Minore, nipote dello stesso Augusto.
Il lastricato dell’urbs cominciava forse a scottare sotto i piedi di Ovidio già intorno all’1-2 d.C.? Il sospetto nasce leggendo con attenzione un’opera certo minore ma tutt’altro che irrilevante nella sua funzione di coronamento del ciclo “erotodidascalico”: i Remedia amoris, la cui stesura risale appunto, verosimilmente, a quel biennio. La cooperazione tra Fondazione Lorenzo Valla e Mondadori ha dato corpo nel 2022 a una nuova, pregevole edizione che a questo poemetto in 407 distici elegiaci, «straordinariamente intricato e complesso», in dialogo con testi medici, retorici, filosofici, intende attribuire una dignità finora misconosciuta dai filologi: Rimedi contro l’amore, a cura di Victoria Rimell, latinista dell’University of Warwick, con traduzione di Guido Paduano, professore emerito di filologia classica all’Università di Pisa (pagine cxxxvi-384, euro 50).
Che i Remedia mirino a depotenziare o quanto meno a controbilanciare la discussa e forse già incriminata Ars amatoria (presente fin dal 1993, per merito di Emilio Pianezzola, nella medesima collana del binomio Valla/Mondadori) è un progetto chiaramente enunciato ai vv. 43-4: discite sanari per quem didicistis amare; / una manus vobis vulnus opemque feret, «imparate a guarire da chi vi ha insegnato ad amare; / una sola mano vi darà la ferita e il rimedio». Non una palinodia, in realtà, non una ritrattazione. Piuttosto, una ricalibratura, con ricorso alla «ragione», dell’originario «impeto» erotico mediante l’elencazione – supportata da numerosi exempla mitologici – di metodi, risorse, espedienti con cui “disinnamorarsi”, svincolandosi da liaisons irreversibilmente deteriorate. Si tratta, nella sostanza, di un passo indietro dopo le precedenti incursioni in territori fin troppo eccitanti. Anche se, nella forma e nel tono, nell’atteggiamento ammiccante, nell’ironia pungente, il “gioco” delle relazioni amorose continua a svolgersi secondo il codice dell’Ars amatoria: «La nuova Musa non disfa l’opera antica» (v. 12).
Psicoterapeuta ante litteram, medico che confessa di essere egli pure malato d’amore, Ovidio dispensa ai suoi lettori-pazienti un’ampia gamma di prescrizioni, consigli, linee-guida. Si spazia dall’elementare raccomandazione di intraprendere attività impegnative, coinvolgenti e distraenti (pratiche giuridiche, esercizi militari, agricoltura, giardinaggio, caccia, pesca) al suggerimento di bruciare eventuali epistolari, compiere lunghi viaggi, concedersi “avventure” alternative. Risalta più che mai, attraverso questa variegata rassegna di situazioni in bilico tra il serio e il faceto, quella peculiarità dello stile ovidiano che tanto affascinava Italo Calvino (Lezioni americane, 1988): «la ricerca della leggerezzacome reazione al peso del vivere».
Calvino guardava essenzialmente alla prodigiosa tessitura delle Metamorfosi. Ma grande fu, tra Medioevo e Rinascimento, la “popolarità” degli stessi Remedia amoris, capaci di influenzare, in dittico con l’Ars amatoria, un filone di trattatistica che dal De amore di Andrea Cappellano (xii secolo) giunge, magari senza che se ne abbia consapevolezza, fino alle odierne rubriche giornalistiche di “posta del cuore”. Basti pensare alla risonanza suscitata dal proemio dei Remedia, dove il poeta garantisce a Cupido di non volergli «muovere guerra», nella Vita Nuova (cap. xxv) del giovane Dante Alighieri: «Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio de lo libro c’ha nome Libro di Remedio d’Amore».