Rosita Copioli, Avvenire
Come i bizantini, prediligo Eliodoro: il miglior romanziere nelle storie d’amore più sofisticate, le cui Etiopiche (che essi chiamavano anche Cariclea), escono nella preziosa cura di Silvia Montiglio. Non capisco come Erwin Rohde, l’amico di Nietzsche che introduce Dioniso nel suo ponderoso Psyche, Il culto delle anime presso i greci, potesse giudicarlo pomposo e retorico, criticandone il linguaggio artificiale, irto d’invenzioni astruse, lontano dalla naturalezza che lui, sommo filologo, attribuiva alla lingua greca. Cosa avrebbe detto di Gadda? di Manganelli? Sì, individua il fondo neopitagorico, non neoplatonico delle Etiopiche, composte tra III e IV secolo in ambito orientale, come gli altri romanzi greci; ma non resta scosso dal loro profondissimo senso mitico e religioso. Non sono venate di cristianesimo, come si congetturò, pensando che «Eliodoro, un fenicio di Emesa, della stirpe di Helios, figlio di Teodosio» – come si firma – potesse identificarsi con il vescovo di Tricca. Montaigne ricorda con simpatia che «questo buon vescovo di Tricca preferiva perdere la propria dignità, il profitto, la devozione di una prelatura così venerabile, piuttosto che la propria figlia»: la primogenitura dell’opera d’arte.
Il profumo religioso è acutissimo: filosofico, ancestrale e moderno: qualcosa che riguarda la capacità di tessere la letteratura sul filo dei sogni e delle visioni, come l’Odissea – che ne fornisce il modello, con le figure di Ulisse e di Penelope, l’esperta dei segni – e la Commedia di Dante per il progresso accordato all’enigmaticità dei trapassi tra verità e illusione, affidati alle rivelazioni. Sotto il Sole invitto caro a Giulia Domna e Giulia Mesa, o sotto la luna di Selene, nel riaffiorare di un’Africa che fa pensare – Atena libica e sacrifici umani, ma anche Gimnosofisti indiani che abitano nel tempio di Pan, asceti e mistici che vi si oppongono per un divino puro – ecco il bacino multietnico mediorientale che un secolo prima aveva dato Le metamorfosi, o L’asino d’oro di Lucio Apuleio di Madaura, greco che scrive nel più bel latino del tempo: un’Africa ellenizzata fin dai capostipiti Helios, Dioniso, Andromeda, Perseo, Memnone: pronta per essere saccheggiata da Flaubert, per la sua Salammbô.
Eliodoro inizia di colpo senza preamboli, senza invocazioni a Muse o a dèi: «Il giorno cominciava appena a sorridere e il sole illuminava le creste dei monti, quando degli uomini armati da briganti sbucarono da una delle colline che dominano le foci del Nilo». Sembra l’attacco dei Wanderjahre di Goethe. La scena è vista dall’alto con gli occhi dei briganti: un battello all’ancora, spiaggia coperta di cadaveri o morenti, resti di un banchetto, spoglie intatte. Scendendo: una ragazza d’indescrivibile bellezza su uno scoglio, china su un giovane straziato di ferite. Lei che sembra Artemide o Iside (siamo in Egitto). Dialogo tra i due, briganti col fiato sospeso, totalmente catturati dal fascino del divino che lei espande. D’ora in poi, sarà sempre così: tecnica teatrale o cinematografica, e mana. L’eloquentissima, luminosissima Cariclea, e l’altrettanto fulgente Teagene, tessalo discendente di Achille, suo innamorato, che lei fa passare per fratello, continueranno a catturare la pericolosa concupiscenza di tutti, ma mettendo in chiaro subito, in ogni peripezia, il predominio di bellezza come luce, di corpo e d’anima, di un’intelligenza – quella di lei – tanto diritta, quanto sopratutto sinuosa, propria della metis di Atena e del suo protetto Ulisse, astutissimo tessitore di inganni (perfino Leopardi ne cita le parole sul valore della menzogna). Si può capire come, dopo avere conquistato il patriarca Fozio, e dopo di lui Psello e Anna Comnena, Cariclea avrebbe potuto colpire Boccaccio, Poliziano, e io credo Boiardo (Bessarione ne aveva due copie), influenzando Tasso (chi meglio per la Clorinda, nel contrasto tra eros e castità?), il lunare Sidney, Shakespeare, Cervantes, Calderon, Racine. Il pathos della poesia tragica, che gli veniva sopratutto da Euripide (in particolare dall’Elena, pure d’ambiente egizio), non era tra i maggiori alimenti del sublime?
La trama è complicatissima, sebbene imperniata sul tema classico di due amorosi che dovranno patire di tutto prima di ricongiungersi, e su quello del riconoscimento. Cariclea è stata abbandonata dalla madre Persinna, regina d’Etiopia e moglie di Idaspe, perché di pelle bianca. Allevata a Delfi dal sacerdote di Apollo Caricle, durante i giochi pitici s’innamora alla follia di Teagene, che la ricambia, ma lei è già promessa. Il colpo di fumine è assoluto, la potenza di eros quella del Fedro.Da Delfi li porta via Calasiris, sacerdote di Iside ed esule da Menfi, con il piano di salvarli in Egitto. Catturati dai corsari, poi dai briganti, le loro vicende si intrecciano con quelle di Cnemone, prigioniero greco: con quelle dell’occupazione persiana dell’Egitto: con la passione furiosa di Arsace moglie del satrapo per Teagene: fino alla guerra di re Idaspe, vittorioso contro i persiani, che trascina i due ragazzi a Meroe in Etiopia, per sacrificarli a Helios e Selene. Lì, grazie alle agnizioni del gimnosofista Sisimitri e a quelle di Persinna, al valore di Teagene e alle prove del fuoco da cui la purissima Cariclea scampa anche grazie alla magia della pietra pantarbe, si giunge al gran finale delle nozze dei due, destinati a essere i sacerdoti di Sole e di Luna.
Regista impavido e precisissimo, Eliodoro si ricorda di ogni filo interrotto. Ricuce, riprende, aggiunge, intarsia voci perdute, digressioni, ecfrasi, allude alle poliglottie, sperimenta, cita senza risparmio, come se scrivesse Guerra e pace. Le critiche furono ai due protagonisti: statici, senza psicologia. In realtà sono come due meravigliose statue, fatte per corrispondere al livello massimo della luce, con una massima fioritura di quell’alta eloquenza, che la poesia non aveva timore di frequentare un tempo, rifiorendo da Petrarca, Tasso, Leopardi, in canzoni mirabili, come L’ultimo canto di Saffo, o La ginestra.