Chi studia l’antichità classica inevitabilmente si imbatte prima o poi in qualche libro perduto, di cui può cercare di indovinare il contenuto soltanto grazie a frammenti, testimonianze indirette, e supposizioni più o meno ardite. Il nome della rosa, il primo romanzo di Umberto Eco ed un enorme successo editoriale e cinematografico, culmina con il disperato e inutile tentativo di Guglielmo da Baskerville di salvare dalle fiamme l’ultima copia conservata del secondo libro della Poetica di Aristotele; chi studia la narrativa antica sicuramente farebbe come Guglielmo per proteggere l’ultima copia delle Storie Milesie di Aristide, ma purtroppo di questo testo non si hanno più tracce da molto tempo. Se prestiamo fede alle magre informazioni in nostro possesso (forse talvolta prevenute, certamente parziali) riusciamo a intravedere una collezione di racconti relativamente brevi, divertenti, avvincenti, caratterizzati per lo più da erotismo provocante e ambientazione borghese; un testo apparentemente di vasta diffusione, ma che non ha mai goduto di buone recensioni nei circoli intellettuali.
Le storie che popolano i libri 8 e 9 delle Metamorfosi, che hanno per protagonisti sacerdoti imbroglioni, mogli fedifraghe e mariti più o meno scaltri, potrebbero adattarsi benissimo a questa tipologia narrativa, ma Apuleio non fa nulla per collegare queste parti del romanzo alla tradizione milesia. Questo è piuttosto strano, perché altrove non mostra alcuna remora a legarsi a un genere molto screditato: tutto il romanzo è definito un “dialogo milesio” nel prologo, e nel secondo libro il giovane Telifrone, protagonista di un racconto assieme terrificante e ridicolo, dice di provenire da Mileto – un sottile ma chiaro indizio sul genere narrativo a cui appartiene il racconto. La lunga storia di Amore e Psiche, contenuta nel secondo volume (libri 4-6, di prossima uscita) del commento Valla al romanzo di Apuleio, aggiunge un altro importante capitolo alla frammentaria storia letteraria delle Milesie. Poco dopo l’inizio del racconto viene riportato il responso reso al padre di Psiche dall’oracolo di Apollo a Mileto: ovviamente dovrebbe essere in greco, ma il narratore, che sta usando il latino, preferisce altrettanto ovviamente tradurlo in questa lingua. La voce del narratore extradiegetico (l’autore Apuleio) qui si sovrappone a quella della vecchia serva dei briganti che sta raccontando la storia a Carite: ambedue le donne sono greche e non hanno alcuna ragione di porsi il problema della traduzione, a differenza di Apuleio che scrive le Metamorfosi in latino. La latinizzazione del responso è attribuita, con lo humour tipico dell’autore, al dio stesso:
Apollo, che pure era greco della Ionia, per fare un favore all’autore di questa Milesia offre in latino il seguente responso…
(4.32.6)
La storia di Amore e Psiche, dunque, è una Milesia – e questo non può non sorprenderci almeno un poco. È inevitabile considerare il grande racconto centrale delle Metamorfosi una sorta di mise en abyme del romanzo nel suo complesso: basti pensare a come la curiosità di Psiche richiami quella di Lucio, e riflettere solo un momento al fatto che ambedue i personaggi affrontano traversie e sofferenze prima di essere salvati dalla grazia divina. E come non vedere i frequenti ammiccamenti alla filosofia platonica, a partire dal nome dei due protagonisti? Inevitabilmente “Amore” e “Psiche” richiamano il grande mito al centro del Fedro, sull’amore che fa mettere le ali all’anima del filosofo consentendogli di librarsi in alto fino a contemplare le Idee. Cosa ha a che fare questa sotterranea elaborazione letteraria e filosofica con le storie divertenti e di dubbia moralità che siamo abituati a connettere con le Milesie?
Non molto, in effetti. Il punto è che Apuleio sembra sfruttare il collegamento con la malfamata opera di Aristide, e allo stesso tempo proporre una profonda ridefinizione del genere Milesio. Divertimento, piacere di narrare e di ascoltare, passioni travolgenti, colpi di scena, emozioni forti: tutto questo non è affatto rinnegato, ed entra a pieno titolo nel programma letterario del romanzo nel suo complesso, della storia di Telifrone e di quella di Amore e Psiche. Su questo programma tuttavia si innestano anche interessi di tipo diverso e coerenti con quello che sappiamo della personalità di Apuleio, filosofo platonico e iniziato a vari culti misterici: ed ecco quindi comparire temi quali il corretto rapporto con il sovrannaturale e il distanziamento dai “piaceri servili” che appesantiscono l’anima del filosofo.
Tutto questo però, si badi bene, non colma affatto la distanza che separa un romanzo da un catechismo religioso o un trattato filosofico. È difficile trovare in Amore e Psiche dei collegamenti veramente puntuali e precisi con il Fedro, o con la filosofia platonica in generale; allo stesso modo, Psiche ricorda certamente Lucio in vari modi, ma non ne è affatto il clone. Ogni contenuto ‘serio’ che Amore e Psiche ha da offrire (e certamente ne ha alcuni) è screditato in più modi: la narratrice è definita una vecchia avvinazzata e delirante; l’ascoltatore non è che un asino che considera il racconto nulla più di una bella fabella (6.25.1); e l’autore stesso sembra voler soffocare sul nascere ogni possibile riflessione che il lettore potrebbe fare incalzandolo immediatamente con un colpo di scena (“Ma ecco che arrivano i ladroni…”: 6.25.2).
Se un lettore ha inclinazioni filosofiche o religiose, Amore e Psiche può senz’altro offrirgli dei generici spunti di riflessione, oltre che un gradevole intrattenimento narrativo. Ma fermarsi a riflettere richiede volontà e impegno: come tutto il romanzo, anche Amore e Psiche è una Milesia, il canto di una Sirena da cui è facile e dolce farsi irretire.