Il problema di Elettra

Piero Boitani
― 26 Novembre 2019

Questa è un’Elettra di Sofocle che, come molti dei nostri progetti, si è venuta costruendo per gradi, quasi fosse un articolo di Lego. Per prima è venuta la traduzione di Bruno Gentili. Poi abbiamo aspettato anni per avere commento e introduzione di Francis Dunn: sono dovuto andare io sino a Santa Barbara, California – approfittando di un Convegno dove dovevo parlare – per risvegliare Francis dal sonno beato in cui era piombato dopo aver firmato con noi il contratto. A quel punto, dopo altri anni di intervallo, è parso opportuno affiancare a lui Liana Lomiento, che ha svolto un lavoro straordinario di stimolazione, riorganizzazione, traduzione del testo inglese, e di creazione di una Nota al Testo che è un vero e proprio saggio di grande densità e di alta filologia. Il risultato è un’Elettra originale, brillante e capace di reggere il confronto con altre edizioni recenti come quella che Patrick Finglass ha pubblicato con la Cambridge University Press nel 2007.

L’Elettra di Sofocle non è un dramma facile, ma è un dramma potentissimo, e io credo un capolavoro assoluto, tanto da generare un Nachleben che comprende le riscritture di Hofmannsthal (poi trasformata in memorabile opera in musica da Richard Strauss), a O’Neill, Giraudoux e Sartre. Dunn sostiene che è un “problema”, ma io vorrei che tutti i problemi venissero risolti al modo in cui Sofocle risolve quelli dell’Elettra. Misurarsi con la storia di Elettra non doveva essere uno scherzo nell’Atene del V secolo. C’era, per cominciare, una Oresteia lirico-narrativa di Stesicoro, e venivano poi le Coefore di Eschilo come secondo dramma della sua Orestea. Infine, è probabile, anche se non sicuro, che anche l’Elettra di Euripide precedesse quella di Sofocle. Certamente, si trattava di una sfida non piccola per un drammaturgo che – come tutto sembra suggerire – si avvicinava ormai all’età di novant’anni. L’Elettra infatti presenta caratteristiche di stile e di impostazione affini a quelle del Filottete e dell’Edipo a Colono, cioè gli ultimi drammi di Sofocle.

Dunn sostiene che l’Elettra è un “problema”, idealmente iscrivendo il dramma a una categoria creata dalla critica per discutere alcuni plays famosi, e ambigui, di Shakespeare quali All’s Well That Ends Well, Measure for Measure e Troilus and Cressida. Guardiamo infatti all’Elettra: la personalità della protagonista vi campeggia assoluta. La trama si svolge con rapidità stupefacente, ma con una quantità di svolte e raddoppiamenti sensazionali. Il tessuto lirico, drammatico e melodrammatico è teso come la corda di una lira. Tuttavia, il personaggio stesso della protagonista è un problema «in quanto ostacola i cospiratori e ruba la scena ai loro piani». Ed è un problema il dramma, «perché è privo del normale meccanismo che serve a portare avanti la trama». Davanti alla sconfitta ateniese nella guerra contro Sparta, Sofocle sceglie insomma l’esplorazione dell’individuo, abbandonando di fatto l’aspetto sociale e politico della tragedia e privilegiando l’ethos, il “carattere”.Anche qui, però, sorgono questioni non indifferenti: per esempio, «può un individuo eroico essere esemplare se la forza della sua personalità non è diretta contro potenti antagonisti ma resta un’esibizione largamente inefficace da parte di una persona», come Elettra, «posta ai margini»?

Certo, io vorrei che tutti i problemi generassero soluzioni drammatiche e monologhi come quelli che Sofocle ha inventato per l’Elettra. Penso, riguardo ai secondi, al pezzo nel quale Elettra, quasi assumendo il ruolo di Messaggero, descrive la situazione che le tocca vivere dentro casa (254 sgg.), oppure più tardi alle repliche di Elettra a Crisotemi e Clitennestra, o infine ai lamenti disperati che ella pronuncia quando viene annunciata la morte di Oreste o quando l’urna che dovrebbe contenerne le ceneri viene portata in scena.

Quanto alle prime, le soluzioni drammatiche inventate da Sofocle, basterà prendere in considerazione il plot centrale del riconoscimento: centrale, dico, perché senza riconoscimento tra Oreste ed Elettra l’intreccio – la cospirazione stessa tra i due per compiere la vendetta all’assassinio di Agamennone eliminando Clitennestra ed Egisto – non può neppure iniziare. Ebbene, esisteva qui un paradigma di forza eccezionale nelle Coefore di Eschilo, e probabilmente già in Stesicoro. Eschilo aveva impostato l’anagnorisis sulla deduzione da segni visibili e misurabili: giungendo alla tomba del padre per compiervi libagioni, Elettra vi trovava un ricciolo e delle impronte. Accostava, forse seguendo Stesicoro, il primo ai propri capelli e ne riscontrava la rassomiglianza a quel ricciolo. Poi ragionava: “nessuno può avere capelli così simili ai miei se non mio fratello Oreste, dunque Oreste è stato qui”. Subito dopo, Elettra osservava la corrispondenza tra le proprie impronte e quelle presso la tomba (un dettaglio citato da Platone), e di nuovo deduceva: “nessuno può lasciare impronte proporzionate alle mie se non Oreste, perciò Oreste è stato qui”. Lo scheletro dei due ragionamenti costituisce il syllogismos che secondo Aristotele caratterizza questo tipo di riconoscimento e che corrisponde nella sua teoria della conoscenza all’intervento della ragione nel processo conoscitivo. Eschilo, naturalmente, aveva introdotto dei caveat essenziali di natura psicologica ed epistemologica: la sua Elettra dubitava fortemente degli indizi e la prova definitiva del riconoscimento consisteva in un piccolo lacerto di tessuto, ricamato da Elettra stessa molto tempo prima, con le scene-simbolo della casa regnante di Argo e Micene.

Nella sua Elettra, Euripide attaccava ferocemente il meccanismo di Eschilo per bocca di Elettra stessa (che parlava al Precettore il quale aveva annunciato il ritorno di Oreste, desumendolo dal ricciolo e dall’impronta da lui stesso rinvenuti): minando quindi i suoi indizi alla base (capelli e impronte di uomini e donne non possono essere ‘eguali’) e sostituendo la prova finale del riconoscimento eschileo con una assai più solida e tradizionale, ‘omerica’, la cicatrice sulla fronte di Oreste, simile a quella sulla coscia di Ulisse ritrovata da Euriclea.

Da una, poi due, scene, Sofocle si spinge a produrne, con sovrabbondanza a un tempo drammatica ed epistemologica, ben quattro. Primo: il Precettore annuncia che Oreste è morto nei giochi delfici: più tardi viene portata in scena l’urna che – dichiaratamente – contiene le sue ceneri. Secondo: la sorella di Elettra, Crisotemi, di ritorno dalla tomba del padre, rivela a Elettra di avervi rinvenuto il ricciolo, e di essere giunta alla conclusione che Oreste è ritornato. Terzo: Elettra le oppone il fatto che Oreste è morto e l’urna sta a dimostrarlo. Quarto: entra in scena Oreste stesso, riconosce Elettra («Povero corpo devastato in modo ignominioso ed empio»), la guarda intensamente, riscontrando in lei «i segni manifesti di molte sofferenze», e mostra nei suoi confronti una “compassione” tutta particolare (si tratta di un verbo, epoiktiro-as): «O sventurata, quale compassione m’ispira già da tempo la tua presenza». «Tu sei l’unica persona», replica Elettra, «sappilo, ad aver compassione di me». «Sì, proprio l’unico che viene a soffrire dei tuoi mali». Elettra ne trae l’unica conclusione plausibile: «Sei forse un nostro parente, chissà da dove giunto?». «Te lo direi, se costoro, che sono qui presenti, fossero amiche», risponde Oreste. Il riconoscimento è a un passo, ma Sofocle rimanda ancora, abilissimo nell’aumentare la tensione. Oreste ingiunge a Elettra di consegnargli l’urna, lei si ribella: è l’unica cosa che le sia rimasta del fratello! Ma quello che hai nelle mani non è l’urna di Oreste, dichiara l’uomo: lo è solo a parole, è una finzione! Allora dov’è il sepolcro di quel poveretto? Non esiste: i vivi non hanno sepolcro. Allora è vivo? «Sì, se io sono vivo». «Allora quello sei tu!». E Oreste mostra il sigillo appartenuto al padre.

Aristotele diceva nella Poetica che le storie tradizionali non si possono cambiare: Oreste deve uccidere Clitennestra ed Egisto, deve essere riconosciuto dalla sorella. Ma i poeti possono, anzi devono, cambiare i modi in cui si esplica la vendetta o il riconoscimento. Sta tutta lì, l’abilità del poeta antico, nell’elaborare variazioni più sorprendenti, emozionanti, appaganti. Sofocle l’ha fatto a perfezione, nell’Elettra come nell’Edipo re e in tanti suoi drammi. È un virtuoso della variante, del ritardo, della suspense. Naturalmente, anche della definizione di spazi ulteriori. Elettra riconosce Oreste per via del sigillo, quella è la prova decisiva: un segno esterno, come avrebbe detto Aristotele. Ma è indubbio, anche, che Oreste riconosca Elettra dalle sue sofferenze, quelle sofferenze che, viste in lei, si riverberano in lui; e che Elettra cominci a riconoscere Oreste dalla compassione che egli mostra: che insomma l’anagnorisis abbia il suo sostrato nel dolore condiviso e nella com-passione. Che non si tratti soltanto di un syllogismos, che già Euripide, peraltro, giudicava errato, e Sofocle stesso evitava accuratamente (quando Crisotemi trova il ricciolo, esprime la propria reazione con «a quella vista … mi colpisce nel cuore un’immagine familiare / dalla quale ho la prova che Oreste è venuto»). Epoiktiro-epoiktiras sono, dichiara Kells, “emotionally charged”: il che vorrà dire che nel riconoscimento hanno posto dei sentimenti.

C’è poi un secondo spazio che si intravede appena nel testo, ed è quello che si apre tra la morte e la vita, o meglio il ritorno alla vita. Sofocle sembra obliquamente suggerire che ciò che è apparente è la prima, la morte, mentre ciò che è vero è la vita, o il ritornare in vita. Che si possa fare “finzione” della morte è, già, cosa immensa: che si possa farlo a teatro, mediante le meravigliose mechanai delle parole, è ancora più grande: «Oreste è qui morto per finzione / e ora per quella finzione sano e salvo». Sì, l’Elettra è un problema, ma vorrei avere più problemi come questo.


Piero Boitani è stato professore di letterature comparate all’Università “La Sapienza” di Roma e all’Università della Svizzera italiana (USI). Ha insegnato anche a Cambridge, Berkeley, Harvard, Toronto, dove è stato Northrop Frye Professor of Comparative Literature, e alla University of Notre Dame (Indiana). Anglista, biblista, studioso del mito e delle sue riscritture, ha vinto il premio Balzan nel 2016. È direttore letterario della Fondazione Valla.


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