Le Metamorfosi di Apuleio: un classico tra arti figurative e narrativa

Luca Graverini
― 20 Gennaio 2020

C’è stato un tempo in cui i romanzi antichi erano considerati letteratura di livello inferiore, destinata ad un pubblico poco colto e di scarse pretese. Poi, pian piano ci si è accorti che si trattava di testi anche sofisticati, degni di essere studiati con le stesse raffinate tecniche di analisi letteraria normalmente usate per i testi più rispettati e autorevoli dell’antichità: alcuni testi narrativi latini e greci sono ormai entrati, o stanno entrando, nel canone delle opere latine più lette e studiate. Con tutto questo, però, si corre talvolta il rischio di dimenticare che si tratta pur sempre di narrativa scritta non solo per interessare i lettori colti, ma anche per affascinare, incuriosire, coinvolgere emotivamente un pubblico più vasto, che può comprendere persone dotate di preparazione culturale e di gusti personali non necessariamente omogenei. È naturalmente possibile – anzi, necessario – studiare e analizzare con rigore critico anche questo aspetto più emotivo della narrativa antica, ma per farlo occorre attrezzarsi con strumenti un po’ diversi da quelli normalmente usati dal filologo ‘puro’. Ad esempio, è bene ricordarsi della «temporary willing suspension of disbelief» teorizzata da Coleridge, e parlare di identificazione empatica del lettore con i personaggi del racconto, di immersione nell’universo narrativo, di metalessi; ed è rassicurante vedere che, tutto sommato, gli studi classici cominciano ad usare in modo sistematico, e in certi casi a adattare e affinare ulteriormente, anche questi strumenti di analisi. Leggere le Metamorfosi provando le stesse emozioni di Lucio, identificandosi con lui fino quasi al punto di diventare asini anche noi, soffrire le sue stesse traversie, e provare la sua stessa gioia al ritrovare la forma umana (e forse anche un nuovo senso della vita) non significa essere meno filologi; un buon filologo, anzi, dovrà studiare come tutto questo possa accadere, e quali strumenti retorici un autore di narrativa può utilizzare per trasmettere emozioni ai propri lettori.

Piero della Francesca: Il ritrovamento della Croce

Un primo approccio a questi temi può essere di tipo comparatistico, anche per vedere come certe tecniche narrative siano in fondo quasi universali, non troppo condizionate da spazio, tempo e generi espressivi. Proprio per questo è fruttuoso, oltre che intrigante, partire da lontano: ad esempio, dalle arti figurative del Rinascimento. Prendiamo il famoso ciclo di affreschi di Piero della Francesca sulla Storia della vera Croce, conservato ad Arezzo nella basilica di San Francesco.

Eracle e Deianira

La scena che ci interessa rappresenta il ritrovamento della croce di Cristo da parte di Elena, moglie dell’imperatore Costantino. L’azione ha ovviamente luogo vicino a Gerusalemme, e in effetti bisogna immaginare che la città sullo sfondo sia proprio Gerusalemme. Tuttavia, chiunque abbia una qualche familiarità con Arezzo si rende facilmente conto che la città rappresentata nel dipinto è in effetti molto simile ad Arezzo, proprio il luogo dove si trovano l’affresco e chi lo ammira. Un’altra cosa (tra le tante) degna di nota è che tutti i personaggi sono abbigliati secondo i costumi del tempo di Piero, non come antichi romani. Naturalmente si può dire che questo uso disinvolto di anacronismi e incongruenze geografiche è una consuetudine del tempo, e che non c’è nulla di sorprendente nell’osservarlo in questo affresco. Tuttavia, dire che «fanno tutti così» descrive il fenomeno ma non lo spiega, e trascura le conseguenze che questo modo di rappresentare una scena ha su chi la osserva; e, fatto non secondario, ci fa immaginare un Piero della Francesca che opera in modo quasi automatico e irriflesso. Ora, certamente Piero, quando voleva, sapeva rappresentare dei personaggi dando loro un senso di alterità, di appartenenza ad una cultura lontana. Lo stesso ciclo di affreschi, ad esempio, contiene una scena che rappresenta Adamo ed Eva e varie altre figure – tra le quali anche due che pare siano da identificare con Eracle e Deianira – tutti variamente raffigurati secondo schemi classici. Piero quindi sapeva rappresentare personaggi «altri», che non sembrassero suoi contemporanei. Se non lo ha fatto nella scena del Ritrovamento della croce, evidentemente è perché non voleva farlo.

Non si tratta quindi semplicemente di rispetto per una consuetudine rappresentativa. Si tratta anche, e forse soprattutto, di un modo di rendere il messaggio dell’affresco allo stesso tempo più universale e più personale; più facile da interiorizzare per chi lo guarda. La Storia della vera croce già di per sé contiene un messaggio universale, riguardante il perdurare dell’influenza salvifica della croce di Cristo attraverso i secoli e i luoghi; gli anacronismi e le incongruenze geografiche dell’affresco non fanno che estendere ulteriormente la portata di questo messaggio, prolungandola fino all’hic et nunc di Piero. Il pittore sta raccontando qualcosa che è accaduto a Gerusalemme, ma Gerusalemme può essere facilmente rimpiazzata da Arezzo o qualsiasi altra città senza alterare il contenuto del messaggio. Racconta qualcosa che è accaduto al tempo di Costantino, ma che può ben essere contestualizzato in qualunque altra epoca. In sostanza, si tratta di un messaggio indirizzato a chiunque stia ammirando l’affresco, in ogni tempo e in ogni luogo. Quanto questa idea di continuità storica potesse fare presa sulle menti dei contemporanei di Piero (e non solo) ce lo può rivelare un dettaglio: il paese natale di Piero si chiamava «Sansepolcro» – in sostanza, ambiva ad essere una nuova Gerusalemme, il luogo del Santo Sepolcro originale, non diversamente dalla città raffigurata nell’affresco. Insomma, le incongruenze cronologiche e geografiche che caratterizzano il dipinto di Piero creano un senso di familiarità per l’osservatore esterno, che di conseguenza può essere maggiormente coinvolto, più attento intellettualmente, più recettivo emotivamente; può immedesimarsi più facilmente nell’universo narrativo.

Gli osservatori esterni possono essere anche non rappresentati o rispecchiati all’interno del dipinto, ma trovarsi ad essere impegnati in una sorta di dialogo emotivo con i personaggi in esso raffigurati.

Cimabue: Crocifisso

Questo è un crocifisso di Cimabue, anch’esso conservato ad Arezzo e datato attorno al 1270. All’estremità dei bracci della croce si trovano due piccole immagini di Maria e San Giovanni, rappresentati in una posa triste e contemplativa. Osservate i loro occhi. Non stanno guardando il Cristo o verso l’alto, come ad esempio in un crocifisso molto simile di Giunta Pisano di poco anteriore a quello di Cimabue.

Giunta Pisano: Crocifisso

Guardano direttamente verso di voi, che a vostra volta guardate verso il crocifisso: si tratta di un dialogo silenzioso, che vi coinvolge nella tristezza e nella contemplazione di Maria e Giovanni. Questo incrociarsi di sguardi trasforma l’immagine dipinta, che per sua natura è bidimensionale, in uno spazio tridimensionale nel quale lo spettatore è invitato a entrare, e del quale finisce per fare parte.

Che rilevanza ha tutto questo per Apuleio? Molta più di quanto possa sembrare a prima vista. A un certo punto, nel cap. 27 dell’ultimo libro del romanzo, il protagonista Lucio menziona la città africana di Madaura, dove era nato l’autore Apuleio, invece della greca Corinto, che ci si aspetterebbe in quel punto dato che Lucio era nato lì. Madaura, in sostanza, è del tutto incongrua in quel contesto – proprio come Arezzo al posto di Gerusalemme nell’affresco di Piero.

Met. 11.27: et de eius ore, quo singulorum fata dictat, audisse mitti sibi Madaurensem, sed admodum pauperem, cui statim sua sacra deberet ministrare.

E le Metamorfosi sono ambientate in Grecia, ma sono piene di riferimenti a cultura, usi e costumi che sono specificamente romani: ad esempio, la città di Ipata ha un pomerio e un Forum cupidinis, proprio come Roma antica; ha littori ed edili, e case dotate di atrii; Lucio e altri parlano un linguaggio avvocatesco, con molti riferimenti a pratiche istituzionali romane; e così via – la lista di esempi potrebbe continuare a lungo.

1.21.3 Milo, qui extra pomerium et urbem totam colit
1.24.3 forum cupidinis peto
1.24.7-8 et lixas et uirgas et habitum prorsus magistratui congruentem in te uideo» «Annonam curamus» ait «et aedilem gerimus…»
2.4.1 Atria longe pulcherrima…
2.6.8-7.1 Quod bonum felix et faustum itaque, licet salutare non erit, Photis illa temptetur».  Haec mecum ipse disputans fores Milonis accedo et, quod aiunt, pedibus in sententiam meam uado.
2.16.5 sine fetiali officio
2.18.2 auspicium petendum
2.24.3 boni Quirites, testimonium perhibetote

Come si vede, quanto a incongruenze culturali e geografiche, il romanzo latino non è da meno dell’affresco rinascimentale. Eppure, tutto questo non sembra ricevere sufficiente attenzione critica. Il Madaurensem, ad esempio, è talvolta liquidato come un esempio di esibizionismo dell’autore, che fa capolino nella propria opera (un po’ come Hitchcock nei suoi film); e ci si accontenta di etichettare la presenza di elementi tipicamente romani in un paesaggio greco come un fenomeno di romanizzazione della storia dell’asino, che era greca in origine. Intendiamoci, non che questo sia sbagliato – non lo è affatto; ma credo sia necessario aggiungere che tutto ciò è anche un modo sottile di rendere la storia più concreta, realistica e familiare per un pubblico romano e, direi, anche africano, e di facilitare l’immedesimazione in essa del lettore; un modo, anche, di rendere il messaggio del romanzo (qualunque esso sia, se ce ne è uno: questo come è noto è un punto assai dibattuto dalla critica) più universale e allo stesso tempo più personale, come accade nell’affresco di Piero.

Come nel crocifisso di Cimabue, anche i personaggi del racconto di Apuleio si rivolgono spesso, più o meno esplicitamente, al lettore esterno. Per rendersene conto, basterà osservare quante volte, in un passo importante nell’economia narrativa e ‘ideologica’ del romanzo come la descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone, Lucio si rivolga a un ‘tu’ non meglio specificato, che inevitabilmente finisce per identificarsi con il lettore esterno. Si tratta di un «effetto di presenza» che catapulta il lettore sulla scena assieme a Lucio; e l’effetto creato dalle apostrofi alla seconda persona è anche rafforzato da altri espedienti linguistici, come l’uso di deittici e la preferenza data al presente rispetto al passato.

Come nel caso del crocifisso di Cimabue, uno sfondo descrittivo e potenzialmente astratto, ‘distante’ dal mondo emotivo sia di Lucio che del lettore, si trasforma in uno spazio concreto e tridimensionale, nel quale l’eloquenza di Lucio ci porta a entrare senza che quasi ce ne accorgiamo. Le barriere che teoricamente separano finzione e realtà si fanno permeabili, e vengono oltrepassate in un senso e nell’altro: è un fenomeno che la moderna narratologia chiama metalessi.

Certamente, tra Piero della Francesca e Apuleio c’è un gap di molti secoli; e questa distanza avrebbe potuto essere ancora più grande se avessi scelto punti di riferimento più moderni di Piero. D’altro canto, avrei potuto anche selezionare ad esempio immagini di affreschi pompeiani, quindi certamente anteriori ad Apuleio, e far rimanere questo discorso confinato alla cultura antica. Ma, in fondo, l’effetto finale sarebbe stato lo stesso. La narrativa, sia essa per immagini o per parole, ha come suo scopo principale quello di catturare il lettore sia intellettualmente che emotivamente, di renderlo partecipe in prima persona degli eventi narrati, di rendere labili e incerte le barriere che separano l’universo fantastico da quello reale. Il patchwork culturale e cronologico che, con un certo grado di arbitrarietà e di provocazione, ho scelto di usare per dimostrare questo semplice assunto serve anche a dimostrare che il romanzo di Apuleio è ormai non solamente «canonico», come dicevo all’inizio, ma anche e veramente un classico, in grado di dimostrare la sua attualità interagendo proficuamente con manifestazioni culturali anche distanti e profondamente diverse.


Luca Graverini è ordinario di Letteratura latina presso l’Università di Siena. Sta curando, assieme ad Alessandro Barchiesi, l’edizione Valla delle Metamorfosi di Apuleio; ha pubblicato numerosi studi su Apuleio e sulla narrativa antica.


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