Pietro Citati inventa e “fa” la Fondazione Valla

Rosita Copioli
― 1 Marzo 2022

Il 22 novembre del 2021 nell’assemblea della Fondazione Valla, su proposta di Piero Boitani, Pietro Citati è stato acclamato Presidente Fondatore della Valla all’unanimità, con lungo applauso. Nulla di più naturale, poiché Citati l’ha inventata e costruita. Ma non se ne comprende l’impianto e la minuziosa, accurata, ramificata struttura, senza rintracciarne i disegni nella mente di Citati, che cerca un sistema mitico-simbolico con la concretezza di un artigiano, intrecciando libri, progetti editoriali e giornalismo, tra classici e modernità, all’interno del presente. In questo intreccio la Valla è una necessità dell’antico filologo romanzo, che va sempre più indietro, alla ricerca delle origini della letteratura, e non accetta di vederne i libri più antichi disadorni del sostegno filologico indispensabile, in questa strana lotta tra il vero e il falso, che ingaggia la letteratura. La Fondazione Valla sta dalla parte del vero, sebbene il suo ambiguo inventore, un Giano bifronte, stia da tutte e due le parti.

Lo racconto attraverso la testimonianza di Pietro Citati stesso.

Nel marzo 1970 Citati pubblicò con Mondadori il suo libro su Goethe incentrato sul Meister e il secondo Faust: dieci anni di studio, e una ricostruzione capillare delle fonti, con capitoli mirabili sulla rugiada lunare, sul tema di Elena e la discesa alle Madri, su Ermes e l’origine della poesia. Continuamente riapprofonditi, i fondamenti del mito classico sarebbero confluiti ne La mente colorata. Ulisse e l’Odissea (Mondadori, 2002). Riguardo al Goethe, Calvino gli scrisse che faceva quella che forse «è la sola letteratura possibile oggi – insieme creativa e critica». Citati aveva quarant’anni, vinse il Viareggio (lo Strega sarebbe andato al Tolstoi, 1983). Per Garzanti aveva curato collane, seguito le opere di Gadda e altri scrittori come Fenoglio e Zolla, costruito la monumentale Storia della letteratura italiana Cecchi-Sapegno. Nel 1966, lasciato Garzanti, era stato assunto da Alberto Mondadori (e Vittorio Sereni), per curare con Giovanni Pozzi una collana di letteratura religiosa. Essa non fu approvata perché “non commerciale”, ma sarebbe stata una base per la futura Fondazione Valla, e da quel momento iniziò con l’editore un rapporto di consulenza e di progetti che si sarebbe esteso anche all’ideazione di diversi Meridiani.


Proveniente da una famiglia ligure-piemontese, con ascendenze siciliane ed emiliane, dove tragedie e crisi erano ricorrenti, e che avrebbe raccontato attraverso le lettere dei bisnonni nella Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (1989), Citati si legava e si sarebbe legato ad amici di elezione. Erano ora coetanei, ora maestri che diventavano figure fraterne; tra essi Zolla, Calvino, Cassola, Merlini, Pasquali, Contini, Leo Spitzer, Emilio Cecchi, Pasolini, Manganelli, Bertolucci, Gadda, Elena Croce e Raimondo Craveri con i loro figli, Raffaele Mattioli, Alfredo Schiaffini, Giuliano Gramigna, Giulio Cattaneo, Enzo Forcella, Bassani, Vittoria Guerrini, Mario Praz, Giovanni Macchia, Niccolò e Dinda Gallo, Vittorio Sereni, Roberto Calasso, Giovanni Mariotti, Sergio Fruttero e Franco Lucentini, Giorgio Caproni, Mario Trevi, Anna Maria Ortese, Piero e Landa Crommelynck, Fumaroli, Cioran, Gérad Macé, Bianciotti, Santo Mazzarino, Carlo Diano, Marino Barchiesi, Carlo Gallavotti, Christine Mohrmann, Manlio Simonetti, Francesco Sisti, Federico Fellini…

Gli anni Cinquanta-Settanta discendevano dalla Normale di Pisa (non del tutto idilliaca: «adoravano Togliatti come modello di uomo politico, di studioso, di uomo immensamente buono», «la vita era poverissima; facevamo la fame»). Citati vi aveva studiato Leopardi e l’illuminismo lombardo, e si affezionò a Giorgio Pasquali. Seguirono gli studi romanzi a Zurigo, come assistente del grande romanista Reto Raduolf Bezzola, tradusse tutto Arnaut Daniel, che «ebbe molto successo». Allora conobbe Gianfranco Contini, che lo inviò da Gerhard Rohlfs, al lettorato di Monaco di Baviera.

Se scrive su Parini – dalla sua antica geniale tesi e scoperta – e su Marivaux; se cura Spitzer per Einaudi – tutto dipende da quegli antichi studi. Di quegli anni tra Zurigo e Monaco non conosciamo né il suo Arnaut, né gli scritti che comparvero su Neue Zürcher Zeitung, su un giornale americano di Berlino, Die Neue Zeitung, oltre che sulla bavarese Süddeutsche Zeitung. Nessuno li ha più cercati negli archivi.

Sempre negli anni Cinquanta collabora a riviste importanti; poi, “via Bassani”, al «Punto», quindi al quotidiano «il Giorno» di Pietra e Murialdi 1960-1973 (da cui in parte nascerà Il tè del cappellaio matto, Mondadori, 1972: «letteratura come un’infinita mutabilità intorno a un tempo che non muta»). Approda al «Corriere della sera» (1973-1988) inaugurato dagli scritti su Manzoni, che hanno successo e si trasformano in libri, poco graditi dai moralisti che vedono frantumarsi un’immagine sacra; fulminea è l’uscita di Alessandro con appendice di documenti curata da Francesco Sisti (Mondadori, 1974) – modello della vita interamente mitica: Pasolini ne fece l’unica recensione gender, folta di implicazioni personali.

Dagli anni Cinquanta, e su su fino ad oggi, è all’interno del presente, che Citati matura un sistema mitico-simbolico fondato sugli archetipi, oltrepassando ogni revisione analitica. Presentando i miti della Luce della notte (Mondadori, 1996) – miti scitici, classici, cinesi, islamici, ebraici, dell’Europa moderna fino alla condizione schizofrenica, ossia la tenebra che li rovescia – dice a Benedetta Craveri: «Pensare miticamente significa giungere al di là del principio di contraddizione: un mito può significare venti, trenta cose opposte contemporaneamente; e noi possiamo interpretarlo in modi molto diversi. Eppure ogni mito è meravigliosamente unitario: Apollo o Ermes o Dioniso, malgrado le loro facce opposte, sono ognuno una figura unica. Proprio del mito è il suo infinito potere di irradiazione: non si esaurisce mai, mentre possiamo immaginare che la poesia si esaurisca. Nel libro c’è un filo conduttore. Noi non possiamo contemplare la luce (o solo una volta nella vita, in una rivelazione estatica): possiamo contemplarla moltiplicata e riflessa nella luce della notte: questa è l’esperienza di Lucio e di Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio. […] Dobbiamo confrontarci […] con la dimensione mitica. Dobbiamo vivere come se Apollo ed Ermes fossero nostri contemporanei […] rendendo contemporanei alla nostra mente tutti i miti della storia dell’umanità. Perché questo è l’unico modo di vivere veramente nell’io. L’io fatto di sentimenti e di sensazioni è un io apparente, che non ha una struttura. Soltanto se viviamo in un io moltiplicato dove affrontiamo continuamente tutti i miti ci sarà possibile conoscere l’esperienza di un vero io». («La Repubblica», 13 settembre 1996).

Questa contemporaneità e simultaneità che rischia la schizofrenia – e assomiglia alla mente variegata e policroma di Ulisse, il “polipo” e il camaleonte – ha la proprietà di spingersi in tutte le direzioni del finito, come suggerisce Goethe a chi cerca l’infinito. È amore della natura e del presente, che il dèmone analogico continua a sentire ancora collegato con il tutto, malgrado catastrofi, morti degli dèi, e rovine: è quella sua fragile continuità, scintilla inestinguibile, che non muore, infinita. Ma paradossalmente, esso coincide con la passione per l’infinità del passato. Da un lato non ha bisogno del passato per sostenersi, per puntellarsi. Eppure, dall’altro, più è contemporaneo e simultaneo, più ingloba il passato, e lo riporta alla luce. Non un solo passato delimitato. Ma tutto. Partendo comunque da quello più vicino, più diretto: il mondo classico greco latino con l’innesto cristiano dei primi secoli, fino al Medioevo.

L’immaginazione viaggia veramente soltanto dalle aeree presenze dei testi riletti nelle loro identità, vivi sempre… Stupiva che mentre gli altri dichiaravano la morte del romanzo – in nome dell’afasia dell’incomunicabilità, e per pavidità – o negavano la natura e il mito in nome delle ideologie della mercificazione, Citati continuasse imperterrito a vedere gli dèi, gli spiriti del romanzo, delle avventure teologiche, dovunque, anche negli autori di quel “moderno” che pareva negarli. Il dono ermeneutico, questa proprietà di Ermes che possiede, e che dovrebbe dipendere dalla mancanza di barriere e pregiudizi, è una perla lungamente rotolata dalle acque del profondo, e dalla conoscenza filologica, trasportata nella restituzione della letteratura. Non è un dono gratuito, anzi è pericoloso, perché non di rado impone scelte che rischiano sfide. Libri personali, collane editoriali – come le più recenti dei Classici Rizzoli e l’Islamica di Mondadori, oltre alla Valla – sono imprese affidate alla preminenza dei testi e all’eccellenza dei collaboratori, antitetiche alle semplificazioni deliranti di questi nostri ultimi anni.

Citati segue la propria “natura originale”, secondo l’idea di Goethe: le è fedele. Che si occupi degli Incas o di santa Teresa, di Cosroe e Suhrawardi, di gesuiti in Cina e di Monet, di Kafka o dell’armonia del mondo tra gatti bambini viaggi politica lingua chiacchiere lingua italiana; del “migliore dei mondi possibili” o di Leopardi, della Mansfield e di Fitzgerald, di don Chisciotte e dei Vangeli, della malattia dell’infinito che ammala gli ultimi secoli, del silenzio e dell’abisso che i miti gnostici ricordano sempre, o come nell’ultimo libro ancora inedito, di un percorso amplissimo dall’antichità ai nostri giorni con essenziali campiture dei più accesi visionari che costellano la letteratura e l’arte, sappiamo che Citati sarà sempre l’Ermes di viaggi che stupiscono e incantano, perché ci tiene sulla soglia di un’attesa e di uno stupore che sono i suoi.

Pur nella continuità, Goethe nel 1970 è uno spartiacque. Concentra competenze, interessi, mito. Nello strillo di copertina Mondadori segnala già che l’autore «dirige, insieme ad altri studiosi, una collana di Scrittori greci e latini di prossima pubblicazione». Abituato com’è a fabbricare collane editoriali, Citati sente il bisogno di una collana di classici che unisca ai greci e ai latini i cristiani, in edizioni critiche, introduzioni, apparati e commento scientifici, traduzioni nitide e testo a fronte, in un insieme accessibile non solo agli specialisti, ma anche al lettore che voglia accostarsi ai testi fondamentali delle nostre origini con una guida sicura e autorevole. Una collana così non esiste nemmeno all’estero, e l’Italia ha perso da secoli il primato del suo Umanesimo.

Santo Mazzarino

Il 25 marzo 1970 Citati va dal notaio con Santo Mazzarino e Carlo Gallavotti, e firma l’atto costitutivo di quell’Associazione, poi Fondazione assunta da Mondadori, che diventerà fino ad oggi un orgoglio nazionale per la qualità delle traduzioni e delle edizioni, dovute ai migliori specialisti. La intitola a Lorenzo Valla, simbolo della filologia che smaschera le falsità, strumento di verità in ogni campo, anche religioso e politico, dato che Valla dimostrò la falsità della donazione di Costantino, su cui la Chiesa aveva architettato il proprio dominio, e il proprio potere temporale. Mazzarino è l’Ermes che conosce tutto. Non solo il più grande storico romano. «Nessuno gli è pari. Pieno di libri, da san Paolo ad Asoka, nemmeno gli immensi Pasquali, Spitzer, Diano, Praz, gli tengono testa». Mazzarino è un grande consigliere, un puer con una «fantasia prodigiosa, un senso analogico simile a quello di un poeta, e metteva in rapporto tutti i particolari, che si illuminavano a vicenda tra loro, Roma e la Cina, il Medioevo e il Messico».



Citati per prima cerca la Mohrmann, la maggiore esperta di latino cristiano, va a Nimega, costruiscono il primo volume sui santi, dove Citati traduce la vita di Antonio, e altri sono reclutati a tradurre: Marino Barchiesi (al cui figlio Alessandro andrà il compito di commentare, e curare con altri le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio), Luca Canali, che poi avrebbe tradotto l’Eneide, Carlo Carena, che si sarebbe occupato di Plutarco, Claudio Moreschini. La Mohrmann, «grassa e ridanciana», che nelle missioni del Congo «temeva di essere mangiata», scherza Citati, diventa una grande collaboratrice, con i suoi assistenti Bartelink, Bastiaensen e van Smit. Tra gli altri primi libri sono la Poetica di Aristotele (1974), ed Empedocle (1975), curati da Gallavotti, La guerra giudaica di Giuseppe Flavio, curata da Giovanni Vitucci in due volumi (1974). Da allora, a quattro per anno, sono diventati 175.

Per Citati l’invenzione originaria dei volumi non riguarda singoli autori soltanto, ma antologie e grandi serie (i Santi, le Storie di Alessandro, la Democrazia in Grecia) il Cristo, l’Anima Mundi, il Francescanesimo, i Viaggi dell’Anima, le Fonti di Roma, solo per citare le principali di un programma variegato dove tutto si tiene, legatissimo, intorno ai “fondamenti” approfonditi in modo unico, nei loro allargamenti pressoché infiniti, affascinanti. Qualcosa che solo i serial di ottima fattura (e possiamo metterci Chesterton) possono concepire in formato filologico.

Piero Boitani

Con un sistema tanto artigianale quanto complesso, Citati controlla, riscrive, taglia, esercita con somma auctoritas tutti i libri. Nessun gran professore fiata, e lui lavora nascosto, come gli ha insegnato il sacrosanto lathe biosas, che questo mondo ha dimenticato. Stile condiviso da un principale collaboratore, Francesco Sisti, condirettore ufficiale dal 1974 al 2011, che in particolare curò Arriano, ed è scomparso nell’estate 2021. E ora da Piero Boitani, chiamato d’imperio nel 2005 come direttore per le sue competenze vaste e uniche, poi vice-presidente esecutivo nel 2014, oggi ancora direttore della collana di “Scrittori greci e latini”: nel 2016 ha devoluto alla Valla la metà del Premio Balzan, iniziando le annuali Balzan-Lincei-Valla Lectures, e ha messo in cantiere un programma a lunghissima durata, esteso all’ebraico e all’Umanesimo quattro-cinquecentesco. La dinamica della Valla è un’anomalia creativa e artigianale che ricorda le botteghe di artisti filologi capaci di ricostruire, come Pinturicchio e Raffaello, le grottesche della Domus Aurea, un unicum di tale preziosità e prestigio, che da nessuna parte del mondo ne esiste nemmeno un pallido – non equivalente – somigliante.

Per cancel culture, revisioni-attacchi ai classici, rintocchi di falsi problemi tra scienza-tecnologia e umanesimo, di scuole pratico-democratiche e classico-reazionarie (riscaldato ma sempre appetitoso gourmet gramsciano, poi pasoliniano), catastrofiche riforme universitarie, è vero che nei decenni la cultura classica soffre e langue, mentre tutte le grandi collane di classici estere – tranne le Belles Lettres francesi – sono morte o vanno a estinguersi. In questa decadenza dell’istruzione e della cultura, non soltanto italiana, la Valla è come la nave Sidonia che porta Elena in patria, veleggiando impavida, mentre i Dioscuri la scortano sui grandi cavalli celesti.

Dai primi anni Citati estendeva agli scrittori amici un coinvolgimento per la Valla che poteva avere molte forme: dirette, consultive, spirituali, giornalistiche, simpatetiche, e via di seguito, nel sistema delle corrispondenze analogiche. Sguinzagliava gli “amici” della Valla come recensori sui giornali, in modo da costituire un drappello fedele di sostenitori. Io fui associata dai primi anni Ottanta, e la mia forma di sostegno consisté in recensioni; ma nel 2000, quando organizzai per alcuni anni a Rimini il Festival di poesia medievale, chiesi la collaborazione della Valla. Da conterranea di Serra, e da anomala poeta con una buona dose di fissazione filologica (“Filologia anarchica dell’immaginazione simbolica” fu il titolo di un mio saggio teorico), so che anche la memoria filologica appartiene alle Muse.

Nel 1970, quando licenziava Goethe, Citati avvertiva che il libro portava acqua in un momento in cui tutto stava esplodendo nel fuoco. L’acqua era anche quella della Valla. Fonti alimentatrici, rinfrescanti, che pochi contemporanei, soprattutto poeti di generazioni successive, cercavano di rianimare. Nel 1975, pronti i volumi sui santi, Citati li spedì a Fellini, chiedendogli se poteva continuare a mandargli le pubblicazioni della Valla. Fellini lo cercò, con entusiasmo. Fu l’inizio di una delle amicizie più intense, uno scambio reale, che affiancava a Citati e alla Valla l’artista più completo e profetico del Novecento, secondo Kundera; di certo il più alato compagno di strada nella visione della catastrofe, come nella rifondazione di letteratura, poesia, arte, e filologia.


Rosita Copioli ha pubblicato libri di poesia, prosa, saggi, drammi, testi storici; ha curato e tradotto opere di Saffo, Yeats, Leopardi, Goethe, Flaubert, Fellini, e ha diretto la rivista di poetica «L’altro versante». Tra i libri di poesia: Splendida lumina solis; Furore delle rose; Elena; Il postino fedele; Le acque della mente; Le figlie di Gailani e mia madre; Elena Nemesi. Tra quelli di prosa e saggi: Tradurre poesia; Narrare; Tradizioni della poesia italiana contemporanea; I giardini dei popoli sotto le onde; Il fuoco dell’Eden; Ildegarda oltre il tempo; La previsione dei sogni; Il nostro sistema solare; Gli occhi di Fellini; La voce di Sergio Zavoli; Simbolo.


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