Carlo Carena, Il Sole 24 Ore
Due nuove edizioni di Antigone ed Elettra di Sofocle ci ripongono innanzi alle due più grandi eroine del teatro tragico, dal greco classico a quello del Novecento: Antigone ed Elettra, grandi nell’invenzione letteraria e nei loro significati, che sono stati di volta in volta sottolineati nel corso e secondo i desideri e gli ideali dei tempi, e che ci toccano ancora.
Antigone ha accompagnato il suo infelice padre Edipo, colpevole e vittima di un incesto inconsapevole con sua madre Giocasta, nell’ultimo e agognato suo riposo, lontano dalla patria Tebe, l’ospitale Atene. Il bosco di Colono lo accoglie e gli offre una sepoltura; dove lo seguirà per sempre l’amore di quella sua figlia. E nata com’essa è per condividere non l’odio ma l’amore, essa cederà anche all’amore per il fratello Polinice quando assalirà Tebe e perirà in duello col fratello Eteocle, e il nuovo tiranno della città, Creonte, ne vieterà la sepoltura. Quella è la legge dello Stato, degli uomini, che vogliono regolarsi solo secondo ragione. Ma c’è anche un’altra legge superiore, naturale e non scritta ma posta nel cuore degli uomini dagli dèi, a cui si deve superiormente obbedire. E così fa Antigone, vittima di un dilemma insolubile, e per questo verrà condannata ad essere sepolta viva in una caverna, che sarà la sua camera nuziale, senza sposo e senza nozze.
Racine, quando rappresentò questo mito nella prima delle sue tragedie, la Tebaide, se ne ritraeva quasi inorridito. Vi riconobbe «il soggetto più tragico dell’antichità», dove tutti gli attori muoiono alla fine, senza presenza dell’amore come ce n’è di solito nelle tragedie, inesistente e impossibile fra questi protagonisti, sostituito dall’odio, da incesti, parricidi e da tutti gli altri orrori che possono trovarsi nella storia di una famiglia sventurata.
Ma per fortuna c’è lei, soggiungeva Simone Weil nelle sue Intuizioni precristiane, perché Antigone è un essere superiore, «perfettamente puro, perfettamente innocente, perfettamente eroico», e folle secondo il metro umano, che si consegna volontariamente alla morte perché, come getta in faccia al tiranno, non è nata per condividere l’odio ma è suo destino «condividere l’amore, anche con quelli che sono sottoterra». Essa sola, dice in Racine, versa lacrime, mentre tutti gli altri versano sangue.
Ma proprio lì, soggiungerà qualcun altro (Anouilh nella sua Antigone, in piena occupazione della Francia e regime nazista) sta il dramma di quella fanciulla bruttina, solitaria, taciturna, che dovunque va porta inquietudine e scontentezza, mentre sua sorella Ismene è bellina, espansiva, contenta. «Se fossi stata una serva che lavava i piatti, le fa dire Anouilh, al sentir leggere quell’editto che vietava di seppellire un morto, avrei asciugato il grassume dalla mie braccia e sarei uscita per compiere quel dovere verso mio fratello».
All’opposto l’altra eroina, Elettra, che domina la sua scena e sempre in scena dall’inizio alla fine nella tragedia di Sofocle, tranne in 100 versi su 1510; pronuncia più versi essa sola che tutti gli altri personaggi assieme; dotata di tale fascino nella sua persona, nelle sue pene e nelle sue opere che, si dice di lei nell’Electre di Marguerite Yourcenar (1954), qualunque uomo appena un po’ assennato prima o poi finirà per innamorarsene.
Figlia di Agamennone e di Clitemestra, soffre silenziosamente, covando odio e vendetta, quando la madre e il suo amante Egisto uccidono Agamennone al suo ritorno da Troia. Straziata in mezzo a quella tempesta, infelice per le sue stesse virtù e per la sua solitudine senza figli e senza sposo, «sempre piangendo per suo padre come il querulo usignolo», ma implacabile nell’odio, Elettra non attende che l’arrivo del fratello Oreste per eseguire la vendetta, in uno strazio continuo: «O luce santa, o spazio dell’etere che eguagli la terra, quanti miei canti di lamento udisti, quanti colpi contro il mio petto che sanguina, quanti pianti per il padre infelice!».
E quando la vendetta viene, quando compare Oreste e la compie uccidendo dapprima la madre, e poi Egisto implora clemenza, è lei a dire: «In nome degli dèi, non permettere, fratello, ch’egli parli ancora. Uccidilo al più presto». Il meccanismo del mito e la finezza del drammaturgo sono tali nel rendere i sentimenti, che il grido feroce della figlia (la testa pensante) appare semplicemente un ordine di giustizia e, osservano i critici teatrali, si esulta persino di un matricidio.
Leopardi racconta nello Zibaldone, anno 1821, che allorché pochi anni prima fu rappresentato a Bologna l’Agamennone dell’Alfieri, con la medesima storia, suscitò tale ira e odio verso Egisto che quando Clitennestra uscì dalla stanza dove uccise il marito reggendo il pugnale insanguinato, la platea gridò furiosamente all’attrice che ammazzasse anche l’amante. Gli attori si affrettarono ad avvertire che si sarebbe vista la scena la sera seguente nella rappresentazione dell’Oreste. E la sera seguente il teatro fu sùbito stracolmo: straordinario fenomeno anche questo, che si possa scatenare e nutrire «un tanto odio verso un ribaldo di 3000 anni addietro».
La nuova edizione dell’Elettra appare nella collana degli Scrittori greci e latini della Fondazione Valla – Mondadori e si avvale della traduzione di un maestro quale Bruno Gentili, mentre la cura del testo critico è opera di Liana Lomiento ora sulla cattedra greca di Gentili all’Università di Urbino, e il commento è di Francis Dunn dell’Università americana di Santa Barbara, studioso di tragici greci.
L’edizione dell’Antigone, nei «Saturnalia» dell’editrice La vita felice, ha tutt’altra ispirazione, quella diretta della recitazione e della scena, che ne fa una redazione densa e compatta, discorsiva ed emotiva, a volte forzando il testo. E le parti che più ne risentono sono ovviamente i Cori.
Coro dell’Antigone: «Felice chi, nel corso della vita, / non gusta mai il sapore / della sventura! / Chi si ritrova invece la sua casa / sconvolta per volere degli dei, / per lui non c’è disgrazia che non strisci / sulla sua numerosa discendenza: / come fa l’onda del mare salato / quando, spinta dai soffi rovinosi / che vengono dai monti della Tracia, / corre veloce / sopra l’oscurità sottomarina, / facendo rotolare dall’abisso / la sabbia nera».
Coro dell’Elettra: «Perché, vedendo nell’alto gli uccelli, / più dotati di senno, / solleciti a nutrire quelli dai quali / nacquero e quelli da cui traggono sostegno, / perché queste cose noi pure non compiamo in eguale misura? O Fama dei mortali che scendi sotto terra, / manda per me negl’inferi agli Atridi / una voce di lamento / che rechi il non lieto messaggio di vergogne».
Alla scena mira anche il commento nel primo caso, agli atteggiamenti dei personaggi e ai loro diversi ruoli dialettici; mentre il secondo illustra esaurientemente il testo greco, mettendo a fuoco il senso del testo e i singoli vocaboli.