Giorgio Ieranò, La stampa, Tuttolibri
Fra crudeltà e orge gioiose del coro l’ultima tragedia di Euripide resta un enigma. Cosa racconta davvero la storia del giovane re di Tebe Penteo punito da Dioniso?
Un rompicapo», «a riddle»: così, oltre un secolo fa, un grande studioso inglese, Gilbert Norwood, definiva le Baccanti di Euripide. Un rompicapo: un gioco di quelli che non si risolvono mai, un puzzle dove le tessere non si incastrano. Le Baccanti, infatti, ultima tragedia di Euripide, rappresentata dopo la morte del poeta nel 406 a. C., restano un enigma. Cosa ci racconta davvero la storia del giovane re di Tebe, Penteo, punito crudelmente da Dioniso per averne negato la natura divina? Qual è la morale (se una morale c’è) di questo dramma visionario e inquietante, dove un dio beffardo stringe in una trappola feroce le sue vittime, e dove alla fine Penteo muore squartato dalla sua stessa madre, resa folle da Dioniso? Che rapporto c’è tra i canti gioiosi del coro, un gruppo di donne asiatiche che celebra con accenti ispirati la bellezza sfrenata dell’estasi dionisiaca, e la sinistra e desolata vicenda di morte che si svolge nel dramma? Il dibattito è secolare. Secondo alcuni, Euripide, che già nell’antichità godeva la fama di ateo, starebbe mostrando ancora una volta i paradossi della religione tradizionale e l’insensatezza delle divinità olimpiche. Altri, al contrario, hanno visto nelle Baccanti una celebrazione dell’orgia dionisiaca, un inno alla divina follia che travolge l’angusto razionalismo del tiranno Penteo, incapace di aprire la sua mente alla grandezza dei misteri divini. Friedrich Nietzsche, su questo, non aveva dubbi. E vedeva nelle Baccanti la conversione, in punto di morte, dell’empio Euripide: «Un poeta che ha combattuto tutta la vita contro Dioniso, con forza eroica, solo per finire la sua vita con la glorificazione del suo nemico».
Le Baccanti sono un testo cardine dell’immaginario occidentale, un serbatoio inesauribile di suggestioni per i poeti e gli intellettuali che, come Nietzsche, hanno sognato di far rivivere il mondo dionisiaco. Affrontarle è obbligatorio ma anche disperante. Non solo perché sono state commentate e rilette infinite volte. Ma soprattutto perché, a ogni rilettura, sembrano mostrare con un volto diverso, come il dio inafferrabile di cui narrano. A smontare il rompicapo delle Baccanti prova ora Giulio Guidorizzi, che ne cura un’edizione per i classici della Fondazione Valla. Guidorizzi si occupa da sempre di follia dionisiaca. Già nel 1989 aveva tradotto e commentato il dramma euripideo per la gloriosissima collana «Il convivio» di Marsilio. Rispetto ad allora non ha cambiato rotta. Facendo ampio ricorso ai suoi studi precedenti, continua a seguire la via indicata da Eric Dodds, grande studioso dell’irrazionale nel mondo greco. «Le Baccanti – scrive Guidorizzi -, non si possono interpretare con categorie puramente teatrali». Le orge sfrenate che il coro mima sulla scena, la possessione divina di cui si parla nel dramma sono esperienze reali dei greci dell’epoca. E Dioniso è il simbolo di quella dimensione oscura ma vitalissima dell’essere umano, di quella «divina follia» (come la chiamava Platone) a cui non si può rinunciare senza mutilare la propria esistenza, così come Penteo viene mutilato della sua testa. Perciò gran parte dell’introduzione non parla delle Baccanti in quanto testo teatrale ma si sofferma sui riti orgiastici dionisiaci che, secondo Guidorizzi, Euripide ricostruisce «con l’accuratezza di un etnologo».
Eppure si ha a volte l’impressione che Euripide lavori, più che come un etnologo, come un geniale bricoleur. Da un lato prende spezzoni di un dionisismo favoloso e mitologico: il coro delle sue baccanti è la versione animata di quelle figurine di ninfe che, sui vasi ateniesi dell’epoca, venivano dipinte mentre danzavano nei boschi con i satiri dalla lunga coda, battendo le mani sui tamburelli. Ma, d’altro lato, il Dioniso di Euripide appare in scena travestito da profeta orientale. È un mago, un illusionista, un ciarlatano molto simile ai santoni asiatici che percorrevano in quegli anni le strade di Atene. Ricorda i profeti del dio frigio Sabazio, che attraversavano la città con gran fracasso (un po’ come gli Hare Krishna di oggi), agitando serpenti e picchiando sui tamburi, e ovviamente venivano guardati con scherno e diffidenza dalla gente perbene. Del resto, il Dioniso delle Baccanti vuole istituire un nuovo culto, una religione che fino ad allora non esisteva: la sua. E si sa che gli ateniesi dell’epoca non amavano molto gli spacciatori di nuove divinità: come insegna il caso di Socrate, costretto a bere la cicuta, pochi anni dopo la messinscena delle Baccanti, proprio perché accusato di introdurre nella città «nuovi esseri divini».
Ecco, Ecco, allora, qual è forse il vero dramma di Penteo. Il dramma del perbenista, dell’uomo qualunque, che si ritrova travolto da una dimensione su cui non ha il controllo. Irretito dagli inganni di Dioniso, trascinato nel gioco di un’allucinazione perenne. A volte, davanti ai suoi occhi, il dio si sdoppia in un fantasma, altre volte gli si rivela con l’aspetto terribile di un toro. In questo teatro di illusioni, Penteo perde la propria dignità e la propria identità. Si traveste da donna e sale al monte dove verrà fatto a pezzi da sua madre: un sinistro pupazzo in vesti femminili, una pedina nel gioco crudele del dio. Poi, secondo i suoi gusti, ciascuno potrà scegliere se simpatizzare con Penteo o con Dioniso. Nel 1968, per esempio, Luigi Squarzina, con la traduzione di Edoardo Sanguineti, mise in scena una versione hippie e sessantottina delle Baccanti, dove l’orgiasmo dionisiaco rappresentava la forza liberatoria dei movimenti giovanili mentre Penteo incarnava l’ottusità arrogante del potere costituito. Ma, viceversa, non stupisce che il lamento della madre, infine rinsavita, per la morte di Penteo sia stato riadattato da un Padre della Chiesa, Gregorio di Nazianzo, al compianto della Madonna sul corpo di Gesù. Perché, alla fine, il dolore di Penteo è quello di tutti noi. Seppure oscuramente, percepiamo che nelle Baccanti è racchiuso, in forma di enigma, il senso profondo della nostra vita. Ed è per questo che il «rompicapo» continua a ossessionarci.