Marco Beck, L’Osservatore Romano
Quando, nel volgere lo sguardo verso l’aurea stagione culturale fiorita nell’Atene del V secolo a.C., si inquadra il fenomeno della tragedia, subito si affacciano alla memoria, indissolubilmente correlati tra loro, i nomi eccellenti di Eschilo, Sofocle ed Euripide: una triade che scandisce l’evoluzione, la maturità, l’incipiente declino della drammaturgia greca classica. Quando invece si considera la realtà più o meno coeva della commedia ateniese, un solo nome svetta al di sopra di un panorama immerso nella “nube della non conoscenza”: quello di Aristofane (nato intorno al 445 e vissuto fino a poco dopo il 388). Eppure la commedia archaia (“antica”), destinata ad avere nel secolo successivo come più “morbida” erede la nea (“nuova”), incarnata da Menandro, annoverò almeno altri due rappresentanti di notevole talento, Eupoli e Cratino. Ce lo testimonia Orazio, attraverso l’esametro iniziale della Satira I 4, che sembra comporre un canone, un trinomio simmetrico rispetto al triplice vertice del teatro tragico: Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae. Senonché, nel giudizio dei posteri, l’arte comica di Aristofane sovrastò la produzione dei suoi due “rivali”, delle cui opere non sopravvivono che scarsi frammenti. Prima il filtro autorevole della filologia alessandrina, poi l’ulteriore scrematura operata dalla civiltà bizantina tramandarono all’Occidente umanistico una selezione di undici commedie aristofanesche, promuovendo un loro duraturo apprezzamento sia in sede letteraria sia in applicazione scenica. Da quella creatività oscillante tra satira politica e critica culturale, tra surrealismo fantastico e licenziosità farsesca, furono influenzati, nel Novecento, scrittori e drammaturghi d’eccezione, da Eliot a Joyce a Ionesco.
L’intramontabile vitalità del teatro di Aristofane nelle due parallele dimensioni degli studi di antichistica e degli allestimenti per il palcoscenico si riflette in una prestigiosa impresa editoriale, realizzata dalla Fondazione Lorenzo Valla in partnership con Mondadori. Si tratta dell’edizione critica, della traduzione e del commento estesi all’intero corpus aristofanesco e curati da specialisti quali Dario Del Corno, Giulio Guidorizzi, Carlo Prato, Massimo Vetta, Giuseppe Zanetto. Dopo l’esordio con Le Rane (1985) il ciclo di pubblicazioni ha inanellato Gli Uccelli (1987), Le Donne all’assemblea (1989), Le Nuvole (1996) e Le Donne alle Tesmoforie (2001). Pochi mesi or sono, il piano dell’opera si è arricchito di una sesta, sfavillante acquisizione: Lisistrata, con la dotta curatela di Franca Perusino, grecista emerita dell’Università di Urbino Carlo Bo, e con la funambolica versione italiana di Simone Beta, docente di filologia classica all’Università di Siena (Valla/Mondadori, novembre 2020, pagine cvi-350, euro 50).
L’etimologia stessa del nome “parlante” assegnato alla protagonista eponima (Lisistrata = “colei che scioglie gli eserciti”) segnala che questa commedia si dispone, dopo Gli Acarnesi e La Pace, lungo l’asse del pacifismo professato da Aristofane in polemica con la politica spregiudicata di quei dissennati demagoghi che stavano trascinando l’imperialismo ateniese verso una dissanguante, devastante sconfitta nella trentennale guerra del Peloponneso combattuta contro Sparta, l’eterna avversaria. È da questo drammatico scenario storico che il commediografo trae ispirazione nel tessere la trama della sua – se così è lecito definirla – pièce. Corre l’anno 411 a.C. La polis, orfana di Pericle, sta per soccombere non solo sul fronte bellico esterno ma anche sul piano istituzionale interno, dove si profila un colpo di stato oligarchico ai danni di una democrazia ormai agonizzante. La popolazione, depauperata a causa del drenaggio di uomini, padri mariti e figli arruolati nell’esercito, è insofferente, stremata, ansiosa di porre fine al conflitto.
Ed ecco la geniale invenzione di Aristofane, in cui confluiscono le due categorie teorizzate da Baudelaire, il “comico significativo” e il “comico assoluto”, il realismo del contesto e l’utopia del desiderio, l’impegno etico-sociale e la sfrenata libertà dell’immaginazione. «Intraprendente, determinata, combattiva» (secondo il profilo tracciato da F. Perusino), Lisistrata ha concepito un progetto tanto audace quanto paradossale per costringere i belligeranti a concludere la pace. La sua strategia persegue due linee: convoca numerose donne non solo dall’Attica ma anche da Sparta e da altre regioni coinvolte e le persuade ad attuare, come forma di ricatto, uno “sciopero del sesso”, una sospensione dei rapporti carnali con i rispettivi coniugi che pieghi l’ostinazione maschilista delle città greche a combattersi senza tregua; nel contempo, dispone che un presidio femminile occupi l’Acropoli, prenda il potere e sequestri il pubblico tesoro per impedire che gli Ateniesi continuino a finanziare le operazioni anti-spartane. Un’iniziativa così rivoluzionaria espone l’eroina pacifista, spalleggiata dal semicoro delle vecchie, a una serie di scontri verbali – in cui il registro della serietà argomentativa si mescola con quelli dell’assurdo, del ridicolo e dello scurrile impastato nel linguaggio comico – con la controparte maschile, rappresentata da un magistrato alla testa di un plotone di guardie e dal semicoro dei vecchi, caparbi e aggressivi conservatori. La parola d’ordine virile, «la guerra è una cosa per gli uomini», viene capovolta e mutata radicalmente di significato dalla leader dell’insurrezione: «La guerra è una cosa per le donne».
Il perseverante, esilarante rifiuto delle mogli a soddisfare le pulsioni erotiche dei loro mariti ottiene infine (purtroppo solo nella finzione teatrale) pieno successo. Esasperati dalla forzata astinenza, Ateniesi e delegati venuti da Sparta intavolano trattative per giungere alla cessazione delle ostilità. Sulla riconciliazione generale Lisistrata imprime il sigillo di un magnanimo discorso “panellenico”, evocando memorie di gesta solidali compiute per il bene comune della Grecia. Da ultimo, un rituale corteo danzante inaugura la festa per la pace restaurata.
Sarebbe fuorviante attribuire ad Aristofane l’intenzione di avallare, mediante l’utopia sottesa al “fate l’amore, non fate la guerra” di Lisistrata e delle sue concittadine, un’improbabile aspirazione delle donne ateniesi ad emanciparsi dalla loro subalternità sociale e culturale, dall’incondizionata dedizione alla famiglia, alla fedele custodia del matrimonio, alla fecondità materna, all’economia domestica, senza alcun diritto di partecipazione alla politica attiva. L’immaginaria riconquista della pace è finalizzata piuttosto al recupero di quell’identità di sposa e madre amorevole, radicata nei valori della tradizione, alla quale ogni ragazza di Atene veniva indirizzata in virtù di una “splendida educazione”. Perciò la Lisistrata – come puntualizza Franca Perusino – «è una commedia al femminile, non una commedia femminista».