La vecchiaia nelle Elegie di Massimiano


― 30 Luglio 2020

Marco Beck, L’Osservatore Romano

Il beato Clemente Vismara, il mitico missionario del Pime spentosi in Birmania ultranovantenne nel 1988, ci ha lasciato in eredità un aforisma di inconfutabile veridicità: «La vecchiaia incomincia quando ti accorgi di non essere più utile a nessuno». Padre Vismara, però, non ebbe mai, fino all’ultimo dei suoi giorni operosi, una simile percezione d’inutilità. Dovette invece accorgersi di non servire più a nessuno, nemmeno a se stesso, il poeta di lingua latina Massimiano — vissuto nella prima metà del vi secolo — quando un inesorabile processo d’invecchiamento, malattia senza guarigione (senectus ipsa est morbus, aveva sentenziato il commediografo Terenzio nel Phormio), gli inflisse infermità d’ogni genere e cocenti umiliazioni nel suo spazio sociale, spogliandolo di tutte le prerogative, fisiche e intellettuali, di cui aveva goduto in gioventù: in primis, la “grazia” dell’amore eterosessuale.

Fu nel terribile vortice di quella presa di coscienza che l’anziano epigono degli elegiaci di età augustea impugnò il calamo e, quasi per una forma di amara autoconsolazione, di sfogo esistenziale, di lamentazione laica, compose un succinto ma denso canzoniere articolato in sei Elegiae. Ne ha di recente curato una nuova edizione critica, con testo latino a fronte della traduzione, e con il corredo di una lucida introduzione, di una nutrita bibliografia e di un commento capillare, il filologo e storico Emanuele Riccardo D’Amanti: Massimiano, Elegie (Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori, 2020, pagine cx-418, euro 50).

Attivo all’epoca del regno ostrogoto d’Italia in fase declinante, Massimiano, forse proprio per la sua collocazione cronologica su una “linea d’ombra” distesa appena oltre il crinale che separa l’evo antico dal medioevo, non ha mai attirato un’attenzione privilegiata da parte degli studiosi di scienze dell’antichità. Eppure l’abbondanza di codici e poi di edizioni a stampa, a cominciare dall’editio princeps (Utrecht, 1474), testimonia che il suo piccolo corpus ha veleggiato con rotta sicura nel mare dei secoli, fino all’odierno approdo mondadoriano. E in effetti Massimiano può essere a buon diritto considerato, sia per profondità di contenuti che per dignità di stile, qualità entrambe di poco inferiori all’ingenium e all’ars dei suoi grandi predecessori (Tibullo, Properzio, Ovidio), l’ultimo esponente di un genus letterario che dopo di lui si sarebbe definitivamente estinto.

Gli scarni dati di cui disponiamo sulla sua vita e la sua personalità sono in realtà elementi autobiografici disseminati nella sua opera e in genere valutati come attendibili. Di probabile origine etrusca, visse in gioventù a Roma, dove esercitò con successo l’attività forense e plasmò la sua vocazione poetica. Membro di un’aristocrazia romana colta e facoltosa, dotato di prestanza fisica pari alla levatura intellettuale, si dedicò all’atletica, alla caccia e al canto. Ebbe diverse esperienze sentimentali, in buona parte rifluite nei suoi distici elegiaci, ma non incontrò nessuna donna «degna di diventare la sua sposa», come confessa disilluso nella prima elegia (v. 78). Ed è verosimile che, nonostante vicende amorose talora gratificanti, la condizione celibataria protrattasi fino all’età avanzata, la mancata costruzione di una famiglia e il rammarico per non aver generato figli abbiano estremizzato la negatività assoluta che contamina la sua concezione della vecchiaia.

Ancor giovane, poté avvalersi della preziosa “consulenza” di un amico d’eccezione come il filosofo e letterato Severino Boezio, saggio mentore nella gestione degli “affari di cuore” che travagliavano l’inesperto Massimiano. Il quale in seguito, prossimo ormai ai sessant’anni, guidò una missione diplomatica a Costantinopoli presso l’imperatore Giustiniano, su incarico di un imprecisato sovrano ostrogoto, per ristabilire relazioni pacifiche tra le due metà, occidentale e orientale, dell’Impero.

Con ogni probabilità, prima della morte avvenuta poco dopo la metà del vi secolo, Massimiano abbracciò la fede cristiana. Sembrano attestarlo, tra l’altro, alcune reminiscenze biblico-evangeliche (ad esempio, proprio nella più “audace” delle Elegie, la quinta, si legge un distico che configura il rapporto sessuale all’interno della coppia come un’intima unione capace di «stringere due anime con un patto così saldo / da far sì che due esseri siano un corpo solo»: calco evidente di Marco 2,8 «e i due diventeranno una carne sola», a sua volta riconducibile a Genesi 2,24). Si deve poi tener presente che l’élite romana cui apparteneva Massimiano era in tale misura cristianizzata da non consentire a un pagano l’assunzione di incarichi pubblici o la responsabilità di un’importante ambasceria. E come terzo indizio si può addurre l’amicizia con il cristianissimo autore del De consolatione philosophiae.

La prima elegia è, non solo per le dimensioni (292 versi), la più ricca di materiale poetico-filosofico. Ad essa soprattutto si ricollega la fama di poeta-pensatore dalla spiccata sapienzialità etica che accompagnò Massimiano dal medioevo all’età moderna. L’incipit fa vibrare, ex abrupto, un’agghiacciante tonalità lugubre nell’introdurre con un’apostrofe il tema dell’anzianità come vestibolo della morte:

«Vecchiaia ostile, perché indugi ad affrettare la morte? / Perché persino in questo mio corpo stremato procedi lentamente? / Libera, ti prego, la mia vita infelice da una simile prigione».

A lungo, e con implacabile crudezza di accenti, Massimiano insiste sulla fenomenologia e sulla sintomatologia della senescenza: il decadimento fisico che fa scempio del corpo debilitato, l’ottenebramento cerebrale che confina l’anziano in una sorta di esilio lontano dal resto dell’umanità, esponendolo al ludibrio sociale (esisteva allora, come oggi e come sempre, la cinica «cultura dello scarto» che Papa Francesco non si stanca di stigmatizzare) e trasformandolo in un malato terminale, addirittura in un «morto vivente».

Dalla sofferenza per questo stravolgimento psicofisico scaturisce una deprecatio senectutis che trae origine dai lirici greci Mimnermo e Anacreonte e si pone in antitesi rispetto non soltanto alla positiva teoria “gerontocentrica” di Cicerone nel Cato maior, ma anche alla tradizione biblica nel suo complesso, nonché alla valorizzazione della senectus, del bonus senex, secondo l’ottica delle antiche comunità cristiane. Ad acuire l’insofferenza per una senilità così drammaticamente deprecata si aggiunge, in radicale contrasto, l’evocazione struggente della giovinezza con tutto il fascino dei suoi pregi. Modello principale è qui — come nella breve sesta e ultima elegia — Ovidio che, esiliato sulle rive del Mar Nero, effonde il suo lamento per la condanna a una precoce vecchiaia morale nei versi sconsolati dei Tristia e delle Epistulae ex Ponto.

Tre figure femminili che nella vita e nel canto di Massimiano hanno inciso altrettante impronte profonde, nel segno non tanto della felicità quanto del rimpianto, sono le protagoniste delle Elegie 2, 3 e 4. La prima di queste donne, Licoride, matura ma ancora attraente compagna del poeta, lo ha proditoriamente abbandonato alla sua desolazione senile per vivere più soddisfacenti esperienze con amanti meno attempati di lui. Anni di armoniosa convivenza e un intero patrimonio di sentimenti vengono così inceneriti da un capriccioso voltafaccia: fallimento innescato dal mortificante affievolirsi delle energie virili. Tra il giovane Massimiano e la fresca Aquilina (terza elegia) era scoccato un segreto innamoramento aspirante al matrimonio. Ma sorprendentemente, una volta cadute le riserve dei genitori di lei grazie alla mediazione di Boezio, il fidanzato in crisi si ritrasse per una sofferta scelta di castità. Quanto a Candida, al centro della quarta elegia, la possibilità di un coniugium sfumò allorché l’involontaria, ardita dichiarazione d’amore sfuggita a Massimiano nel sonno venne captata dal geloso padre della ragazza, che evidentemente si oppose alla relazione.

Una più marcata coloritura erotica screzia di qualche nuance maliziosa – senza peraltro mai scivolare nella scabrosità – l’elegia quinta. Vi si rievoca un episodio “boccaccesco” ambientato a Costantinopoli, all’epoca dell’ambasceria presso Giustiniano. Sedotto dalla soavità canora e dalla leggiadria coreutica di una bellissima cortigiana, Massimiano intreccia con lei una liaison che tuttavia s’interrompe quando, durante un incontro notturno, il più che maturo diplomatico incorre in una imbarazzante défaillance. La Graia puella sfoga allora la propria delusione in una laudatio della passione d’amore senza freni, integrale fusione (come si è già visto) di due esseri in un solo corpo. In questa visione, ispirata a Lucrezio e all’Ovidio dell’Ars amatoria, la potenza dell’eros promanante dalla fertilità maschile assurge a principio generativo della «specie umana» e di «tutto ciò che spira sulla terra intera» (vv. 116-7): un colpo d’ala che riscatta la carnalità del contesto.

La scarsa penetrazione di Massimiano nell’orizzonte dei cultori odierni di letteratura latina classica o postclassica appare inversamente proporzionale all’apprezzamento che fin dal basso medioevo gli venne tributato, in quanto poeta ethicus, da una schiera di lettori eccellenti. Persino Dante potrebbe aver preso spunto, nel celebre passo di Inferno v 121-3 («Nessun maggior dolore…»), dalla chiusa della prima elegia: «A chi è infelice assai duro è il ricordo dei beni del passato» (v. 291). Petrarca e Boccaccio conoscevano le Elegie. Ne furono influenzati Chaucer e Poliziano. Probabili echi massimianei sono poi rintracciabili nel Manzoni del Cinque maggio, dove «in più spirabil aere» parrebbe un calco di spirabilis aer (i 247), e soprattutto nel Foscolo del secondo sonetto, il cui esordio, «Non son chi fui; perì di noi gran parte», traduce fedelmente un lapidario esametro di Massimiano (i 5): Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri.


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