Martiri romani, un’epica color rosso scarlatto


― 29 Gennaio 2025

Francesco Lubian, Alias Domenica – Il Manifesto

Nei duecentocinquant’anni che vanno dal 425 al 675 d.C., la letteratura di Roma si popola dei protagonisti di una nuova epopea: si tratta dei martiri cristiani, che in questo periodo assurgono a eroi di un genere letterario di straordinaria popolarità, quello delle «passioni epiche» (la definizione, classica, è del bollandista Hippolyte Delehaye). A mettere a disposizione del lettore italiano questo imponente corpus narrativo, generalmente poco frequentato anche dagli stessi latinisti, è oggi il primo dei tre tomi della serie dei Martiri di Roma, curata per la Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori da Michael Lapidge (Volume I, pp. CXXII-422, € 50,00). Un’autorità nel campo della letteratura latina altomedievale e antico-inglese, Lapidge ha fornito un contributo decisivo alla definizione stessa del canone delle quaranta passioni dei martiri romani, ed è dal suo magnum opus oxoniense del 2018, The Roman Martyrs: Introduction, Translations, and Commentary, che ha tratto origine il progetto della Fondazione Valla, a cui hanno lavorato due traduttori d’eccezione come Paolo Chiesa e Adele Simonetti.

Oltre a un’ampia Introduzione generale, questo primo volume include il testo latino, la traduzione e il commento delle otto passioni più antiche. Si tratta di testi assai diversi fra loro per mole e ambizione – lo scheletrico resoconto della Passione di papa Cornelio è accostato a un vero e proprio «romanzo agiografico», la Passione di san Sebastiano –, accomunati però dal fatto di risalire a un’età di molto successiva alla fine delle persecuzioni anticristiane. Nate per dissetare la curiosità di fedeli e pellegrini sulla vita dei martiri romani, le passiones sono a tutti gli effetti, come spiega con chiarezza Lapidge, «ricostruzioni di fantasia» e «opere di carattere romanzesco».

Il caso più trasparente d’invenzione di una leggenda agiografica è quello della Passione di sant’Anastasia e san Crisogono: l’Anastasia e il Crisogono «romani», ignoti benefattori che avevano promosso la fondazione di due luoghi di preghiera sul Palatino e in Trastevere, vennero infatti identificati, in età altomedievale, con omonimi martiri stranieri, diventando protagonisti di un’intricatissima vicenda che tocca anche Tessalonica, Sirmium e Aquileia. La fantasiosità delle narrazioni non impedisce peraltro di ricostruire le radici storiche di alcune delle vicende narrate, grazie ai confronti con l’antica Depositio martyrum del 336 d.C. e con le iscrizioni metriche di papa Damaso (366-384 d.C.), il pontefice che più di ogni altro promosse il culto dei martiri romani, restaurandone i sepolcri e fornendo così un contributo decisivo alla cristianizzazione del paesaggio monumentale dell’Urbe tardoantica.

Le vicende dei martiri di Roma sono proiettate in un mondo colorato d’antico: la più antica passio, quella di Felicita e dei suoi sette figli, è ambientata all’epoca di Antonino Pio – ma l’inesistente prefetto urbano Publio tradisce l’inconsistenza storica del racconto, evidentemente modellato sulla vicenda biblica della madre dei Maccabei –, mentre addirittura al tempo di Traiano pretende di risalire la Passione di san Clemente papa, figura quest’ultima di cui è ben testimoniata l’esistenza, ma che Eusebio, nella sua Storia ecclesiastica, non qualifica mai come martire. Alla Roma del potere, che comprende luoghi-simbolo della paganità come il Foro di Marte (cioè di Augusto) e il Campidoglio, ma anche la più enigmatica «scala di Eliogabalo», si contrappone l’essenziale silhouette del paesaggio martiriale, polarizzato intorno ai cimiteri suburbani e ai tituli – le chiese parrocchiali fondate su proprietà donate alla chiesa –, che disegna una nuova cartografia dell’Urbe cristiana.

La lingua delle passioni, analizzata dallo stesso Lapidge in un importante saggio del 2020, è per lo più un latino a bassa caratura di letterarietà, che rivela – specie nei testi più recenti – nette impronte del latino volgare, sia nella struttura della frase che nel lessico, pesantemente influenzato dall’oralità. La cura formale è invece notevole nelle passiones composte da Arnobio il Giovane, colto monaco semipelagiano attivo a Roma nei decenni centrali del V secolo, a cui l’acume di Cécile Lanéry ha ricondotto la paternità della Passione di santa Cecilia e della Passione di san Sebastiano. Oltre che per le citazioni dagli autori del canone scolastico, come Terenzio e Virgilio, le passioni arnobiane si distinguono anche per le lunghe tirate dottrinali e gli excursus polemici, incentrati su Leitmotive apologetici come l’attacco all’astrologia e la critica del culto dei simulacri divini: e mi chiedo se non sia possibile che, dietro l’immagine degli uccelli che stercorant sulla testa delle statue degli dèi, Arnobio non celi un riferimento alla scatologia del Priapo oraziano di Satire 1, 8, 37-38 (Mentior at si quid, merdis caput inquiner albis / corvorum).

Anche le passioni più elementari non sono comunque mai monotone, sia per gli arditi entrelacements che concorrono all’assemblaggio di leggende originariamente distinte, sia perché gli agiografi ricorrono talvolta a espedienti narrativi piuttosto sofisticati: è il caso, ad esempio, del commercio epistolare fra i già citati Anastasia e Crisogono, che prelude all’incontro dei due personaggi e che è a sua volta propiziato da una classica figura romanzesca, l’anicula («vecchietta»). A colpire sono anche le dichiarazioni programmatiche dei prologhi, che riprendono i consueti topoi della veridicità e dell’humilitas stilistica e che spesso mimano i toni di un genere alto come la storiografia.

Dalla tradizione storiografica proviene anche l’espediente delle citazioni documentarie: è nella passione di Clemente che leggiamo il testo di un presunto rescriptum inviato da Traiano al prefetto Mamertino, analogo a quello che il medesimo imperatore aveva indirizzato a Plinio il Giovane al tempo del suo governatorato in Bitinia (Epistola 10, 97). Se è possibile, come scrive Lapidge, che l’agiografo avesse una «conoscenza, peraltro vaga, di questi celebri rescritti di Traiano», anche in ragione della problematica circolazione tardoantica del decimo libro dell’epistolario di Plinio non mi sembra da scartare l’ipotesi che tale conoscenza sia passata per il tramite di Tertulliano, che nell’Apologetico parafrasa il rescritto.

Testi in prosa anonimi e copiatissimi (i testimoni medievali della Passione di san Sebastiano sono oltre 500), le passiones rappresentano un esempio da manuale di tradizione fluida: per questa ragione, Lapidge ha usato come testo-base quello delle migliori edizioni disponibili – spesso non più recenti degli Acta sanctorum dei Bollandisti –, ricorrendo alla consultazione non sistematica dei manoscritti più antichi con funzione di verifica. L’obiettivo è, dichiaratamente, quello di un testo «onesto», cioè «coerente e stilisticamente uniforme, dal punto di vista della grammatica e della sintassi», con il quale si può anche dissentire in singoli punti, ma che rappresenterà da oggi lo standard di riferimento per questi racconti, che costituiscono nel loro insieme – non diversamente dalle opere dei giuristi-scrittori protagonisti dell’omonima monografia di Dario Mantovani – un altro capitolo della «letteratura invisibile» di Roma.


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