Momenti di gloria


― 31 Agosto 2020

Marco Beck, L’Osservatore Romano

Trentotto anni di strenuo impegno specialistico sono occorsi, per l’équipe di studiosi coordinati dalla Fondazione Lorenzo Valla in partnership con l’editore Mondadori, al fine di condurre in porto il progetto di una nuova edizione integrale degli Epinici di Pindaro, capolavoro tra i più ardui e affascinanti dell’antica letteratura greca. Le asperità filologiche insite nello stabilire criticamente, tradurre, interpretare, chiosare testi la cui complessità rasenta talora l’indecifrabilità, oltre alle difficoltà connesse alla fase redazionale, giustificano ampiamente questa eccezionale dilatazione cronologica. Di fatto, la progressiva attuazione del “piano dell’opera”, abbracciante i quattro elementi costitutivi della tetrade pindarica, non ha ricalcato l’ordine canonico — OlimpichePiticheNemeeIstmiche — corrispondente alla scansione tramandata dai principali manoscritti, tra i quali spicca il codice Vaticano greco 1312. Il “varo” all’interno dell’ancor giovane collana Scrittori greci e latini coincise, nel lontano 1982, con la pubblicazione delle Istmiche a cura di G. Aurelio Privitera. Seguirono, nel 1995, le Pitiche, per la cui curatela l’eminente grecista Bruno Gentili si avvalse della collaborazione di Paola Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini. Per vedere pubblicate le fondamentali Olimpiche, a cura dello stesso Gentili affiancato da Carmine Catenacci, Pietro Giannini e Liana Lomiento, si dovette attendere fino al 2013. Finalmente, a coronamento di così plurime e pregevoli fatiche, ecco giungere in libreria, nel maggio di questo travagliato 2020, Le Nemee, curate con acribia da Maria Cannatà Fera (Milano, Valla/Mondadori, pagine lXXx-608, euro 50).

Come i giochi istmici, che si celebravano a Corinto in onore di Posidone, anche gli agoni nemei avevano cadenza biennale e neppure essi godevano dello stesso prestigio di cui erano ammantati quelli quadriennali di Olimpia, legati a un popolare culto di Zeus, e di Delfi, sede del venerato oracolo di Apollo Pizio. Svolgendosi nei dintorni del tempio di Zeus a Nemea, in una vallata boscosa dell’Argolide (Peloponneso orientale), le competizioni nemee esercitavano un richiamo limitato, in sostanza regionale. Questa condizione d’inferiorità si riflette nel minor numero di epinici dedicati ad atleti vittoriosi in quelle gare: 11, a fronte delle 14 Olimpiche e delle 12 Pitiche. Si consideri inoltre che, aggiunte in appendice alla raccolta da grammatici di età ellenistica, le Nemee ix, x e xi si riferiscono a eventi, due sportivi e uno civile, estranei all’ambientazione nemea.

Nato intorno al 518 a.C. a Cinocefale, presso Tebe, in Beozia, formatosi culturalmente ad Atene, Pindaro si era ben presto perfezionato nella nobile arte della lirica corale: un genere di carattere celebrativo e di destinazione comunitaria, imperniato sull’interazione fra la recitazione verbale-melodica e l’accompagnamento sia musicale (con lira o flauto) sia coreutico (mediante particolari movimenti di danza). Occasioni e tematiche dell’attività poetica di Pindaro spaziavano su un’estesa, variegata e oggi purtroppo in gran parte irrecuperabile tastiera. La sua poliedrica creatività si riversò nella monumentale edizione allestita dal filologo alessandrino Aristofane di Bisanzio: 17 libri, comprendenti inni, peani, ditirambi, encomi, threnoi funebri e, nello specifico, quegli epinici che la selezione operata dal filtro della civiltà bizantina salvò dal naufragio, lasciando però inabissarsi tutta la restante produzione, polverizzata in appena 350 frammenti, di cui circa 140 papiracei.

Carmina non dant panem: il vecchio adagio, applicabile a qualunque alunno odierno delle Muse, trova nel caso di Pindaro (e dei suoi “rivali” Simonide e Bacchilide, nonché di altri simili “professionisti” itineranti) una vistosa eccezione. L’encomiasta dei vincitori panellenici componeva le sue odi ad esaltazione delle loro imprese accettando — previa, si suppone, una verifica di congenialità intellettuale — remunerative committenze.

Di qui l’accusa o il sospetto, emersi più spesso in un’antichità invidiosa che non in epoche recenti, di venalità e cortigianeria: insinuazioni che Ugo Foscolo smantellò con una lezione di eloquenza a Pavia, nel 1809 (ironia della sorte: malgrado un’intensa operosità letteraria, il difensore del “ricco” Pindaro morì a Londra, nel 1827, in penosa indigenza).

Del resto, perché scandalizzarsi per il fatto che l’esercizio della lirica corale fruttava in Grecia cospicui emolumenti? Il poeta concepiva e redigeva il proprio testo, inquadrato in rigorose strutture metriche, su misura tanto del festeggiato quanto della città o comunità di appartenenza, la quale vedeva riecheggiare in tutta l’Ellade la fama delle sue origini, tradizioni, relazioni sociali. All’autore competevano anche la preparazione del coro e la cura della performance in ogni sua sfaccettatura, di fronte a un pubblico colto ed esigente formato da compatrioti del trionfatore di turno: un autentico tour de force. Quale mai presunta venalità, dunque? I compensi riscossi da Pindaro equivalevano ai diritti d’autore incassati, ai giorni nostri, da scrittori di successo in seguito alla pubblicazione di romanzi o saggi (non certo libri di poesia!) ad alta tiratura.

Non meno scorretto sarebbe definire “cortigiano” quel «cigno dirceo» al quale Orazio consacrò un’ode, la iv 2, che si risolve in un panegirico. Chiarificatore può rivelarsi un confronto proprio con il modello oraziano. Come il Venosino seppe assicurare al suo otium creativo un adeguato sostegno economico aderendo al circolo culturale del munifico Mecenate e assecondando con strumenti letterari la politica imperiale di Ottaviano-Augusto, così il Tebano riuscì a conquistare la stima e l’ospitalità generosa di potenti personaggi del macrocosmo ellenico, reduci da vittoriose partecipazioni ad agoni panellenici (in primis i tiranni di Siracusa e Agrigento, Ierone e Terone), grazie alle qualità eccelse, alle inimitabili peculiarità, alle risonanze promozionali della sua voce lirica. A rendere ambite, e quindi redditizie, le sue prestazioni concorrevano svariati elementi: il radicamento nel sistema valoriale delle antiche aristocrazie, non privo tuttavia di aperture verso la transizione di alcune poleis da oligarchie a regimi democratici; la salda tempra etica e civile della sua Weltanschauung; la profonda religiosità in dialogo col divino; la duttilità nella gestione selettiva del patrimonio mitologico, commisurato alle contingenze dell’attualità e alle aspettative dei committenti; la maestosità e luminosità di uno stile visionario, trapunto di immagini folgoranti e carico di dinamismo per effetto di ellissi espressive, spiazzanti sconnessioni logiche (i proverbiali “voli pindarici”) e balenanti sentenze di sapore sapienziale, le gnomai.

Sotto il profilo estetico la sublimità è, per quasi unanime consenso dei posteri, la cifra distintiva della poesia pindarica. Il primo ad elevarla a questo livello di assoluta eccellenza fu, intorno al i secolo d.C., l’anonimo autore di un singolare trattato di critica letteraria intitolato per l’appunto Sul sublime (in greco perì hypsous). Non senza, peraltro, qualche riserva. Scrive infatti l’Anonimo: «Pindaro e Sofocle, che nel loro trasporto creativo infiammano ogni cosa, pure molte volte, contro ogni attesa, si spengono e cadono miseramente». In effetti, anche lungo il tracciato delle Nemee, a momenti di elevata ispirazione, accostabili a componimenti dal fascino abbagliante come le Olimpiche i e VII o l’Istmica VIII, fanno riscontro non pochi passaggi opachi, faticosi, se non addirittura di “stile basso”: «dati realistici di vita quotidiana, espressioni di saggezza popolare, vocaboli e costruzioni dell’uso prosastico» (M. Cannatà Fera). Traspare dunque in filigrana un Pindaro “minore”, più artigiano che artista, non in contrasto con il Pindaro “maggiore” ma piuttosto al suo servizio, nel senso di allentare la tensione e concedere pause di respiro al lettore/ascoltatore, così da fargli meglio apprezzare, al di sopra di queste ombre, gli sprazzi di luce sublimante.

Esaminiamo ad esempio la prima delle Nemee, fonte d’ispirazione per Gabriele d’Annunzio. Dopo aver sostato ad ammirare la strabiliante architettura formale impostata sullo schema triadico strofe-antistrofe-epodo, osserviamo, addentrandoci nella lettura, come la grandiosità delle due sezioni mitiche — all’inizio l’esaltazione della Sicilia beneficata da Zeus, alla fine l’evocazione della prodezza di Eracle capace ancora in culla di strozzare due serpenti e destinato infine all’immortalità — si smorzi nella parte centrale, dove si tratteggia in chiave autobiografica il rapporto tra l’etneo Cromio, «vincitore coi cavalli» a Nemea, e il suo cantore, invitato a partecipare a «un degno convito». Rispetto al volare alto del duplice registro mitico («Respiro sacro d’Alfeo, / germoglio di Siracusa gloriosa, Ortigia…»; «Io a Eracle / volentieri mi volgo / tra grandi vette di virtù…») subiscono un abbassamento di tono anche le tre gnomai intermedie, la prima delle quali enuncia il fondamento concettuale sotteso ad ogni epinicio con una formulazione fin troppo scarna, al limite dell’ovvietà: «È nel successo / il vertice della gloria: e grandi imprese / la Musa ama ricordare».

Ignora invece flessioni tematiche o stilistiche, non infrequenti altrove, la splendida Nemeax, che pure mira a incoronare un oscuro lottatore, oltretutto vittorioso in giochi di secondaria importanza, le Eree di Argo. La vera, “sublime” vittoria cantata da Pindaro con maestria al tempo stesso poetica e narrativa non è, infatti, quella dell’argivo Teeo, ma quella conseguita dal Dioscuro immortale, Polideuce, che per amore del Dioscuro mortale Castore, ucciso in combattimento, ottenne da Zeus un privilegio inaudito: restare unito al fratello, potendo trascorrere insieme a lui, alternativamente, un giorno nella beatitudine dell’Olimpo e un giorno fra le tenebre degl’Inferi.


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