Franco Ferrari, Alias Domenica – Il Manifesto
Parmenide, il grande poeta-filosofo attivo a Elea, l’odierna Ascea nel sud della Campania, tra il VI e il V secolo a.C, è stato il fondatore dell’ontologia e della metafisica occidentali? Oppure è stato l’iniziatore della logica (nel suo poema sarebbe depositata la prima versione del principio di non-contraddizione), oppure ancora il primo grande scienziato della natura? Nulla di tutto questo, almeno secondo M. Laura Gemelli-Marciano, alla quale si deve la nuova edizione dei Presocratici per la prestigiosa collana della Fondazione Lorenzo Valla, di cui è uscito ora il secondo volume Sentieri di sapienza da Velia ad Agrigento da Parmenide a Empedocle (Mondadori, pp. XXXII-536, euro 50,00), dedicato appunto a Parmenide, al suo allievo Zenone – colui al quale la tradizione ascrive la formulazione dei celebri paradossi relativi all’impossibilità logica del movimento e della molteplicità –, e a Empedocle di Agrigento, autore di un grandioso poema Sulla natura e di un carme di stampo pitagorico dal titolo Purificazioni.
Dopo avere raccolto nel primo volume di quest’opera le testimonianze e i frammenti dei pensatori di Mileto (Talete, Anassimandro e Anassimene), di Eraclito, di Pitagora e dei suoi adepti, Gemelli-Marciano affronta ora i due autori forse più affascinanti e misteriosi tra quelli che hanno calcato la scena del pensiero che precede Socrate (e Platone), e che per questo vengono solitamente chiamati Pre-socratici, sulle orme del grande filologo tedesco Hermann Diels (l’autore della celebre raccolta nota come Diels-Kranz, perché poi più volte riedita dal suo allievo Walter Kranz). Esattamente come agli autori ora menzionati, anche a Parmenide e a Empedocle sarebbe del tutto fuorviante accostarsi servendosi delle categorie filosofiche e scientifiche coniate da Platone e soprattutto da Aristotele, i quali sono, anzi, per Gemelli- Marciano, i responsabili di un abbaglio bimillenario circa la natura dei pensatori che li hanno preceduti. Questi non sono affatto, come si è quasi sempre creduto e ancora oggi si tende a ritenere, i precursori di Platone e di Aristotele, gli iniziatori di quella disciplina che ha preso il nome di «filosofia», bensì i continuatori di una tradizione di stampo sapienziale e iniziatico-religioso, sostanzialmente estranea alle codificazioni e alle classificazioni operate nei secoli successivi. I poemi di Parmenide e di Empedocle, così come le sentenze misteriose e affascinanti di Eraclito, non sono finalizzati a trasmettere al lettore informazioni sulla struttura dell’universo o sul metodo che l’uomo dovrebbe assumere per pervenire a una conoscenza certa e universale, ma intendono immergere il destinatario all’interno di un’esperienza estatico-iniziatica, che dovrebbe condurlo a entrare in una dimensione diversa e superiore rispetto a quella quotidiana. Insomma, il contesto di produzione e di ricezione di questi testi non ha nulla a che fare con quello che caratterizza la redazione e la fruizione dei dialoghi di Platone o dei trattati «scientifici» di Aristotele.
L’idea che Empedocle fosse un mago, un individuo dotato di poteri eccezionali, simili a quelli di cui si vantava prima di lui Pitagora, non è nuova e dunque non sorprende che al suo pensiero ci si accosti per mezzo di categorie religiose e iniziatiche. Diverso il caso di Parmenide, che dopo essere stato per lungo tempo considerato il padre dell’ontologia occidentale (si pensi a Emanuele Severino), o della logica, negli ultimi decenni è stato soprattutto visto come colui che ha dotato l’indagine naturalistica di un metodo scientifico universale e affidabile. All’interpretazione di Parmenide proposta da Gemelli-Marciano vale dunque la pena dedicare qualche considerazione più precisa. Di questo testo, nei cui confronti già Platone un secolo dopo la sua composizione, nutriva sentimenti ambigui, considerando il suo autore «venerando e insieme terribile», possediamo 19 frammenti, per un totale di poco più di 150 versi. L’opera si apre con un celebre proemio nel quale Parmenide descrive, per mezzo di un linguaggio fortemente evocativo e iniziatico, l’incontro con una misteriosa divinità femminile, priva di nome (forse Persefone), la quale gli annuncia la natura eccezionale del messaggio veritativo che si appresta a comunicargli: si tratta di una vera e propria iniziazione tramite la quale il destinatario viene in qualche modo immerso in una dimensione estatica. La dea indica a Parmenide «due vie di ricerca», il sentiero della Verità, collegato alla Persuasione, e il sentiero incerto e insicuro proprio delle opinioni dei mortali, che sono in se stesse contraddittorie. Da sempre i lettori di Parmenide si sono chiesti quale connessione leghi le due vie, ammesso e forse non concesso che un legame tra i due sentieri ci sia veramente. Per Gemelli-Marciano, in realtà, è inutile sforzarsi di stabilire questo legame, perché l’inizio della via dell’opinione segna semplicemente l’abbandono della condizione estatica in cui l’iniziato è immerso nel corso dell’esperienza veritativa di cui la dea lo ha reso partecipe.
La via della Verità non comporta la trasmissione di informazioni filosofico-scientifiche intorno alla realtà, il misterioso «ente» o «essere», di cui la dea a un certo punto del poema comincia a parlare. Secondo Gemelli-Marciano ciò che accade nella prima parte del poema, occupato appunto dalla via della Verità, non ha nulla a che fare con la comunicazione di una «teoria» filosofico-scientifica, ma appartiene alla dimensione dell’esperienza estatica: per mezzo di parole, suoni e immagini, e attraverso una ritmicità incalzante e ripetitiva, la dea (e con lei il poeta) intende indurre l’iniziato a entrare egli stesso in una dimensione nuova e inaccessibile ai profani: la dimensione dell’essere. Quando nel celebre frammento 8 Parmenide afferma che l’essere è ingenerato, immobile, uno, continuo, non sta descrivendo i caratteri di un ente astratto, e neppure quelli del cosmo fisico, ma si propone di suscitare nell’iniziato l’esperienza di un’immersione estatica in una totalità assoluta e immobile. Scrive Gemelli-Marciano: «l’essere non è infatti concepito in termini quantitativi come una sola cosa [ad esempio l’unità dell’universo fisico], ma come uno stato nel quale si sperimenta la realtà come un tutto coeso e continuo, senza alcuna separazione»; e arriva a concludere che «questa sensazione di completezza assoluta in cui nulla è assente è tipica delle esperienze descritte nei testi mistici di ogni tempo e cultura».
Le cose sono, se possibile, ancora più nette nel caso di Empedocle, l’altro grande pensatore italico del V secolo. Se Parmenide presenta se stesso nell’atto di accogliere la rivelazione della dea e di trasmetterla agli uomini, Empedocle si dichiara esplicitamente lui stesso un «dio», esiliato perché il suo demone, cioè la sua anima, si è macchiato di una colpa di cui l’ingresso nel ciclo delle incarnazioni rappresenta la pena. Nel suo poema essoterico dal titolo Purificazioni, indirizzato ai cittadini di Agrigento, Empedocle dichiara che un decreto divino stabilisce l’allontanamento dal luogo dei beati di chi si è contaminato e la necessità per costui di immergersi nel ciclo delle incarnazioni, e arriva a riconoscere che «questa via [il ciclo delle incarnazioni] anche io ora percorro, esule dagli dèi e ramingo, in preda alla Contesa impazzita». Del resto, emulo di Pitagora che sapeva elencare tutte le sue incarnazioni, anche Empedocle è in grado di indicare gli esseri in cui il suo demone si è incarnato: «io fui un tempo fanciullo e fanciulla e arbusto e uccello e muto pesce del mare». Gemelli-Marciano ha buon gioco nel vedere in Empedocle l’ultimo grande rappresentante di una tradizione gloriosa e insieme misteriosa che affonda le sue radici nei culti dionisiaci e che ha avuto in Pitagora, non scienziato ma sciamano, il continuatore più celebre. Non esiste però, accanto all’Empedocle mistico delle Purificazioni, un Empedocle scienziato, quello del poema naturalistico. Perché anche quest’opera va letta alla luce delle categorie religiose e rituali valide per il poema «pitagorizzante». Rispetto a esso si distingue per la sua natura esoterica, confermata dal destinatario, che non è il popolo di Agrigento ma un solo individuo, Pausania. La sentenza arcaica che affermava che «tutto è pieno di dèi» sembra trovare nel poema fisico di Empedocle una vertiginosa conferma: le radici originarie di cui è composto il mondo, cioè l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco, non sono che divinità, soggette a loro volta all’azione di altre due potenze divine, Philia, cioè l’amicizia, l’amore, l’attrazione, e Neikos, che rappresenta l’odio, la contesa, la separazione.