Retorica antica e lunga durata estetico-filosofica


― 24 Ottobre 2021

Daniele Ventre, Alias – Il Manifesto

L’anonimo trattato Del sublime, falsamente attribuito al retore tardo-antico Longino, è fra i pochi libri di retorica e critica letteraria a essere noto, se non altro per l’argomento, anche fuori dalla nicchia degli studi tecnici e disciplinari. La nuova edizione della Fondazione Lorenzo Valla/ Mondadori (Sul sublime, pp. CLXXVI-543, euro 50,00), curata filologicamente da Stephen Halliwell, con a fronte la traduzione di Laura Lulli e con l’introduzione di Massimo Fusillo, offre ora un originale approccio di quest’opera, che si incentra sui complessi nodi definitorî di un concetto limite dell’estetica occidentale, quello del sublime appunto, terreno estremo già ai tempi delle tradizionali costruzioni teoriche dei retori e dei kritikòi dell’antichità. Forte è l’interesse che questa edizione suscita, per come in essa convergono gli apporti delle letterature comparate e i contributi della filologia classica, a illustrare i temi di un libro che travalica i confini della teoria letteraria, per toccare gli ambiti più vasti dell’indagine filosofica sulla sublimitas in quanto tale: un tema che nella storia del pensiero occidentale interessa i più disparati pensatori – valga per tutti l’ovvio richiamo al Kant della Critica della facoltà del giudizio, in cui il sublime, dinamico e matematico che esso sia, è argomento centrale e ineludibile.

La terna di curatori coinvolti investe i tre aspetti che deve perciò affrontare chiunque al trattato Del sublime si accosti: la prospettiva in senso lato filosofica ed estetica, connotativa delle «esperienze del limite» e del relativo lessico, sondati da Fusillo; i problemi strettamente filologici, dalla costituzione del testo all’eventuale collocazione storica del suo autore, oggetto dello studio di Halliwell; infine la resa italiana della limpida prosa del trattatello, a cura di Laura Lulli, abile nel restituire il dettato stilistico dell’opera, definito dallo stesso Halliwell «elaborato … a volte coscientemente manierato». L’antico, e per noi sconosciuto, teorico della letteratura, che ci ha lasciato questo prezioso documento, era stato prolifico, come egli stesso ci testimonia: fra gli altri suoi perduti saggi si annoveravano una monografia su Senofonte, un’analisi critica (non sappiamo in che forma) del Menesseno di Platone, un trattato in due libri sulla composizione delle parole, un’ulteriore opera retorica, forse a integrazione del trattato Del sublime, sul pathos e sulle emozioni che la poesia è in grado di suscitare.

Sulla questione della paternità del trattato Halliwell si sofferma con efficace sintesi, rigettando, com’è necessario, le vaie ipotesi fantasiose di attribuzione e anche la possibilità di sostenere che Cassio Longino, il neoplatonico del III secolo d.C. a cui l’opera è tradizionalmente (e falsamente) ascritta, ne fosse effettivamente l’autore. Nulla sappiamo di Postumio Floro Terenziano, il dedicatario del cosiddetto pseudo-Longino: Terenziano era un giovane dotato di una preparazione avanzata sul piano di teoria retorica, ma null’altro possiamo dire di lui. Per sempre ignoto resterà il nome del trattatista suo mentore, che fu forse in rapporti con il retore Teodoro di Gadara (il che rimanda a un contesto di I secolo a.C.) e scrisse del sublime poetico in risposta a Cecilio di Calatte e al suo asfittico approccio all’argomento. Oltre non è possibile andare, anche perché a offrire datazioni precise, su cui Halliwell esprime più di un igienico dubbio, non autorizza nemmeno la presunta digressione sulla decadenza dell’oratoria, che sposterebbe l’asse cronologico verso l’età giulio-claudia o poco oltre.

Il retore del sublime è infatti elleno-centrico: la sua personale inchiesta sulle cause della corrotta eloquenza fa riferimento a epoche più antiche (addirittura all’estinzione della democrazia ai tempi della conquista macedone dell’Ellade), mentre la risposta che offre, essendo di natura moralistica (gli elleni di oggi, schiavi dei propri egoismi e dei propri desideri più che dell’impero di Roma, sono incapaci di opere sublimi), fa riferimento ad argomentazioni non circoscrivibili in particolari temperie storiche e collocabili in un ampio periodo che va dal I secolo a.C. ai primi decenni del II d.C. Tutte le difficoltà in termini di identificazione e collocazione storica dell’opera nascono dunque dalla sua stessa natura: l’autore ignoto, che non volle chiamarsi filosofo, che forse può qualificarsi come retore almeno in prima battuta, affrontò un tema che va oltre la prospettiva ristretta della tecnica retorica, e tocca l’ampio spettro di indagini proprie della critica letteraria, puntando a esplicitare «un’idea peculiare dell’eccellenza letteraria», come scrive ancora Halliwell nella sua introduzione, corredata di ampia disamina di tutte le questioni sollevate dalle pagine del trattato, dalle sue fonti, dalla sua indagine mirata a creare una sorta di psicologia dell’ispirazione creativa.

All’introduzione, e al testo greco corredato da un agile apparato critico negativo, corrisponde simmetricamente l’introduzione di Massimo Fusillo: come l’editore critico ha articolato il so discorso fra la ricerca delle fonti – la tradizionale Quelleforschung filologica – e i problemi della psicologia dell’ispirazione, così Fusillo, nell’introdurre il trattato nell’ottica dei contemporanei, sviluppa le sue riflessioni in due momenti, a cui abbiamo già accennato, fra la psicologia dell’arte posta a confronto con le esperienze del limite e la sistemazione di un lessico della sublimitas in quanto tale: una sorta di galleria di tipi ideali che connotano la percezione e la vitalità del sublime in tutte le epoche.

Partendo dall’esempio della scena conclusiva di Melancholia, ipostasi filmica della depressione rappresentata da Lars von Trier sotto la forma di un’apocalisse planetaria senza senso in un universo peraltro vuoto di ogni altra vita, passando attraverso le definizioni e le manifestazioni estetiche medievali del sublime, Fusillo percorre la storia, o meglio la longue durée, di questo concetto attraverso le varie fasi della storia d’occidente e le forme artistiche (non solo letterarie) successive, o succedanee, alle opere antiche da cui il trattatista anonimo distillò il suo discorso retoricamente estremo. Da Michelangelo a Tasso, dal rinascimento al barocco, la terribilità del sublime moderno, a integrazione di quello antico (si sarebbe tentati di dire, con anacronismo schilleriano, la terribilità del sublime «sentimentale» a integrazione di quello «ingenuo») viene così evocata per vaste campionature e larghe campiture storiche, in un unico affresco evolutivo.
In questo sofisticato percorso, un ulteriore elemento interviene a impreziosire il libro: l’interazione fra le argomentazioni critiche e la galleria di immagini tratte dal cinema e dalla pittura, un connotato che nelle edizioni della Valla costituisce quasi un unicum. Sullo sfondo di queste immagini e di questi snodi di teoria letteraria, il lessico del sublime integra questo affresco cercando di enucleare molteplici sotto-categorie della sublimitas e svelando così lo schematismo latente dell’ispirazione artistica e i modi in cui in essa la sublimitas si palesa, dall’«astrazione-sottrazione» all’«aura», al «chàosmos», all’«errore-fallimento», all’«estasi-furore», alla «totalità-infinito», all’«intraducibilità-ineffabilità» che è irriducibilità, al «male» (sublime d’en bas, sublime verso il basso, di flaubertiana memoria), al «pathos» stesso (che nello pseudo-Longino è rimosso solo in apparenza), per arrivare infine alle dimensioni metafisiche del «sacro», del «silenzio» e del trascendimento dello «spaziotempo».

Al di là del pregio dell’edizione critica, fondata su efficaci criteri di economia ecdotica, e del commento, ricco e sistematico; al di là del valore aggiunto della traduzione, la cui prosa levigata riesce a restituire, evitando volvoli sintattici e contorsioni, la concettosità sorvegliata che lo pseudo-Longino nel suo trattato dispiega, l’intero libro è tramato dal dialogo di rispondenze fra le diverse prospettive di interpretazione. Ed è questo connotato originale, tutto sommato unico nel panorama italiano dei classici antichi, a costituire il fascino principale dell’edizione Valla.


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